| Cervello, creatività,
    disturbi e sregolatezza. Autori Vari 
	 Non sempre chi arriva primo può godere dei benefici della
    vittoria. E' questo il caso che vede come protagonisti John Nash premio Nobel per
    l'economia nel '94 e Ennio de Giorgi un matematico italiano. Secondo la leggenda,
    infatti, Alfred Nobel, tradito dalla moglie con un algebrista, rifiutò di dedicare un
    premio alla matematica. Così accadde che De Giorgi non vinse mai il Nobel, a lui però
    oggi è dedicato un centro di ricerca di livello mondiale istituito alla Scuola normale
    dì Pisa (dove insegnò fino al '96). E a suo modo l'iniziativa, a cui è affidata la
    formazione delle nuove leve internazionali di questa disciplina, realizza una giustizia
    poetica, perché lavora proprio al superamento della concezione della matematica come una
    gara: "L'intento", spiega Mariano Giacquinta che ne è fondatore e direttore,
    "è mettere in comunicazione le idee nuove, aprire direzioni alla ricerca promuovendo
    l'incontro fra studiosi: si tratta dì mettere i nostri giovani in competizione con
    l'ambiente internazionale, ma anche di portare ricercatori di tutto il mondo a collaborare
    coi nostri".  
     
    John Nash invece il nobel lo vinse. Questo studioso celebre per i suoi studi sulla teoria
    dei giochi non cooperativi, affidava la speranza di passare alla storia alla soluzione dei
    famoso XIX Problema di Hilbert (una questione riguardante il calcolo delle Variazioni),
    uno dei 23 quesiti che il grande matematico tedesco presentò al convegno mondiale di
    Parigi nel 1900 come sfide cruciali per il futuro. Nel 1958 quando Nash giunse alla
    "sua" soluzione, la notizia che questa era stata pubblicata già l'anno prima
    dal professore italiano fu per lui un grosso trauma che degenerò poi in una forma di
    schizofrenia paranoide. Alla vicenda è stato persino dedicato un libro scritto da Sylvia
    Nasar e poi pure un film portato al cinema da Ron Howard dal titolo A Beautiful Mind. 
     
    De Giorgi dal canto suo non fu solo un matematico ma si interessò molto anche di
    questioni sociali. Fu il fondatore della sezione italiana di Amnesty International e non
    smise mai di battersi per cause come la lotta al pregiudizio antiislamico, il disarmo, i
    diritti: temi presenti nei suoi scritti al pari delle questioni di Analisi matematica per
    cui è celebre". A rendere giustizia a De Giorgi è il prestigio che la sua opera ha
    presso la comunità scientifica internazionale. "Ci sono matematici importanti che
    dicono di aver studiato l'italiano proprio per poter leggere i suoi lavori", ricorda
    Ambrosio. Ma restano oggi altre barriere, ancora più importanti da abbattere di quelle
    linguistiche, a ostacolare i contatti diretti tra gli studiosi. E il Centro De Giorgi è
    nato proprio per demolirle. 
     
    "La matematica è la disciplina in cui ha forse più rilievo l'incontro diretto, il
    dialogo. I massimi risultati nascono dalla conversazione", spiega Ambrosio, "la
    ricerca nel nostro campo vive di un principio dialogico affine a quello che animava la
    filosofia classica. II fattore umano è fondamentale: le ricerche nascono dal fatto che
    qualcuno parte, va a vedere altre persone e con loro si mette davanti a una lavagna a
    chiacchierare. La cosa quindi farebbe pensare ad una situazione agevole per ottenere dei
    finanziamenti ma in realtà qualunque istituto straniero gode di bilanci 3 o 4 volte
    superiori al nostro", spiega Giacquinta, "ma noi non riceviamo risposta da
    nessuna delle istituzioni a cui ci siamo rivolti. I finanziamenti sono tutti per ricerche
    di tipo tecnologico, applicativo". Eppure è assai raro che una scoperta matematica
    nasca da un problema pratico. "Ancora oggi", sostiene Ambrosio, "la maggior
    parte dei risultati significativi si ottiene in situazioni di ricerca pura. Ad esempio la
    "teoria delle ondine" (Wavelets), su cui si basa la tecnologia per la
    trasmissione di immagini via satellite, è nata nella fantasia di qualche matematico ben
    prima che la tecnologia dei satelliti ne richiedesse l'uso. Lo stesso vale per la
    matematica che diede avvio alla scienza dei computer, per il calcolo delle probabilità,
    per le analisi finanziarie".  
     
    "E assurdo vincolare i fondi per la ricerca a progetti di carattere
    applicativo", dice Giuseppe Tomassini, ordinario di Geometria superiore. "Per
    far vivere il Centro basterebbero 750 mila euro, un centocinquantesimo del costo di un
    esperimento di fisica. C'è un problema di cultura scientifica in questo Paese".
    Anche sul mecenatismo Giacquinta non si fa illusioni: "La privatizzazione elimina la
    maggior parte dei fondi per la ricerca. II privato non ha interesse a investire sul lungo
    periodo e la matematica non da benefici a breve. Ci dovrebbe pensare lo Stato, ma questa
    è una parola che oggi si pronuncia con qualche timore". L'incomprensione delle
    istituzioni è un caso dell'eterna difficoltà di comunicare da parte di una disciplina
    che si tende a guardare da lontano, con timore. Difficoltà ampiamente dimostrata in
    Italia dall'insegnamento matematico nelle scuole. Uno che ha cercato di elaborare i
    linguaggi per parlare di matematica con chi sta al di fuori delle mura dell'Accademia è
    Gabriele Lolli, logico di fama internazionale che alla ricerca attiva affianca
    un'attività divulgativa di altissimo livello, rivolta soprattutto ai docenti: "Con
    l'eccezione costituita da certi ottimi insegnanti, la situazione della scuola superiore è
    un disastro, aggravato dalle riforme avviate ogni due anni e mai realizzate. Al classico,
    per esempio, si perde un intero anno con la trigonometria. E spesso si fanno arrivare i
    ragazzi a 18 anni senza insegnar loro granché, ma soprattutto facendogli dimenticare il
    piacere di studiare". E il piacere è fondamentale per una disciplina in cui "un
    oggetto esiste", sono parole di Luigi Ambrosio, "se è bello che esista", e
    in cui l'estetica è insieme un motore della ricerca e un criterio per la valutazione dei
    risultati. 
     
    "Nei licei", dice Mariano Giacquinta, "la matematica quasi sempre è
    spiegata come un ricettario per fare esercizi, una questione di enigmistica". Col
    risultato di selezionare abili solutori di sciarade e di alimentare quel mito della
    "stranezza" dei matematici che tanto irrita i ricercatori e affascina narratori
    come Sylvia Nasar. Perdendo tempo prezioso in un settore dove i risultati migliori si
    ottengono in età giovanile: la medaglia Fields, l'equivalente del Nobel per i matematici,
    non viene assegnata sopra i 40 anni. La scuola ha forti responsabilità: ma basta una
    riforma? "Sogno una riforma", dice Lolli, "che chieda poche cose e insista
    invece sullo sviluppo della creatività, che insegni ai ragazzi a scoprire da soli i
    concetti, ad avere fiducia nelle proprie capacità e a muovere la fantasia. Se poi non
    sanno fare le equazioni di secondo grado, pazienza: non servono a niente". 
     
    La storia è piena di menti eccelse che hanno dovuto fare i conti con piccole stranezze o
    grandi ossessioni. Si pensi alle crisi depressive di Beethoven, alle nevrosi di Kafka,
    alle manie di persecuzione di Schopenhauer, alle bizzarrie di Einstein che - e forse
    questo era il suo segreto - anche da adulto continuava a porsi domande che avrebbe fatto
    un bambino. "L'esaltazione creatrice si ritrova spesso affiancata alla melanconia,
    alla depressione, agli stati maniacali. Biografie e autobiografie lo confermano
    ampiamente", ha scritto lo psichiatra e antropologo francese Philippe Brenot in Geni
    da legare (Piemme). Ma che cos'è il genio? E perché talvolta si manifesta insieme alla
    follia? Le risposte, ammesso che esistano, vanno cercate in quell'ammasso di cento
    miliardi di cellule nervose chiamato cervello. Una struttura complessa, forse la più
    complessa dell'universo, e il cui funzionamento è ben lontano dall'essere compreso. Gli
    scienziati non sanno ancora dire con esattezza come nasce l'intelligenza, né che
    differenze ci sono tra il cervello di un genio e quello di un comune mortale. Le ipotesi
    tuttavia non mancano. Secondo alcuni neurologi, i grandi geni, da Newton a Einstein a
    Nash, userebbero molto l'emisfero sinistro del cervello, quello che sovraintende al
    linguaggio, che si accosta alla realtà in modo più globale e fornisce risposte intuitive
    e immediate. Altre teorie cercano di spiegare la coesistenza di genialità e malattia:
    alcuni deficit mentali sarebbero compensati dallo sviluppo di altre doti intellettuali, un
    po' come accade per i non vedenti che spesso possono contare sulla particolare acutezza
    degli altri sensi. 
     
    Va in questa direzione il risultato di una ricerca di scienziati americani e australiani.
    L'équipe, guidata da Bruce Miller, dell'Università di San Francisco, e Allan Snyder,
    dell'Università di Sydney, avrebbe scoperto che "spegnendo" una certa area del
    cervello anche le persone normali possono acquisire doti geniali in campo artistico o
    matematico. L'idea è nata studiando le vicende di alcuni malati di mente con capacità
    eccezionali. I ricercatori hanno scoperto che in molti geni-folli risulta danneggiato il
    lobo temporale sinistro. Proprio questo handicap sarebbe alla base di particolari
    abilità: "È come se il malfunzionamento di una parte liberasse le capacità di
    altre aree del cervello". Il passo successivo è stato quello di provare a spegnere,
    con una tecnica usata per curare la depressione (la stimolazione magnetica transcraniale)
    il lobo temporale sinistro in persone normali: su 17 volontari 5 hanno acquisito capacità
    matematiche e artistiche prima assenti. 
     
    Esiste, dunque, un legame tra alcune zone del cervello e il binomio genio-follia? Non
    tutti la pensano così. "Localizzare la follia, la genialità o la semplice
    intelligenza in aree precise del cervello ci fa solo fare passi indietro", dice
    Valentino Braitenberg, professore di scienza e teoria del cervello al Max Planck Institute
    di Tubinga, in Germania. "Già cento anni fa alla domanda: dove risiede
    l'intelligenza?, gli studiosi rispondevano: nei lobi frontali. Invece negli ultimi decenni
    abbiamo imparato che per svelare i misteri della mente dobbiamo soffermarci non tanto
    sulle strutture macroscopiche quanto sulla colossale rete di neuroni del cervello".
    Insomma, l'intelligenza, più che essere concentrata in un punto, sarebbe frutto
    dell'attivazione contemporanea di miliardi di cellule (e dei loro collegamenti) in tutto
    il cervello. E il genio? "È colui che, per qualche motivo ancora misterioso, riesce
    a usare in modo più efficiente i suoi neuroni", dice Braitenberg. "E se
    qualcuno chiedesse che differenza c'è tra la struttura cerebrale di un genio e quella di
    uno stupido direi: nessuna. Come dimostrano gli studi fatti: sulla materia grigia di
    Albert Einstein, che hanno evidenziato pochissime variazioni rispetto alla media". 
     
    C'è poi la questione dell'ambiente. Geni (o intelligenti): si nasce o si diventa?
    "Dipende dalle mode", risponde Valentino Braitenberg. "Negli Anni 50, in
    America, per reazione al razzismo nazista, si escludeva che l'intelligenza potesse essere
    ereditaria. Poi, mentre noi cercavamo di adeguarci, sempre negli Usa ha preso piede una
    nuova forma di "innatismo" che ha avuto nel linguista Noam Chomsky il suo
    profeta". Probabilmente la verità sta nel mezzo,  come sostiene Robert Clarke,
    giornalista e autore di Supercervelli, un libro presto edito da Bollati Boringhieri.
    "L'intelligenza", scrive Clarke, "non è solo una funzione del cervello
    pensante. Nel suo sviluppo intervengono tutti gli elementi della cultura del gruppo e
    della famiglia di appartenenza. Mozart sarebbe stato Mozart se fosse nato in una famiglia
    del tutto ignorante in fatto di musica. 
     
    DOVE SI NASCONDE l'intelligenza? Una risposta, ancora da verificare, l'hanno data nel
    luglio del 2000 due gruppi di ricercatori delle Università di Cambridge, Inghilterra, e
    dell'Università di Dusseldorf, Germania. In uno studio pubblicato dalla rivista Science
    le due équipe annunciavano di aver finalmente localizzato l'area del cervello umano
    responsabile delle attività intelligenti: la corteccia frontale laterale. Per ottenere
    questo risultato gli scienziati hanno monitorato l'attività cerebrale di un gran numero
    di volontari con una macchina capace di misurare il flusso sanguigno all'interno delle
    singole zone del cervello. Sottoponendo alle "cavie" rompicapi basati su
    successioni di lettere e simboli (proprio come i test utilizzati per determinare il
    quoziente di intelligenza) i ricercatori hanno notato un aumento nell'afflusso di sangue
    solo nella corteccia frontale laterale. Non sono mancate le obiezioni, a cominciare
    proprio da Science, che nello stesso numero ha pubblicato un articolo per contestare
    l'approccio dagli autori della scoperta: troppo semplicistico definire l'intelligenza
    umana come la capacità di risolvere un quiz. Per non parlare di chi ritiene che il
    cervello non possa essere diviso in compartimenti stagni e che l'intelligenza sia il
    risultato di un'attività che lo coinvolge nel suo complesso. Una controversia che dura da
    più di cent'anni. 
     
    All'inizio del 900 furono avanzate le prime ipotesi sulle funzioni da attribuire alle
    diverse aree dei cervello. Ma fu subito dopo la Prima guerra mondiale che gli scienziati
    poterono contare su casi clinici particolarmente interessanti: erano i feriti di ritorno
    dal fronte che avevano perso facoltà mentali diverse a seconda del punto della testa in
    cui erano stati colpiti. Ancora oggi chi studia i traumi cerebrali sa bene che una lesione
    del lobo frontale può innescare difficoltà di linguaggio mentre una lesione al lobo
    occipitale (quello posteriore) può provocare un degrado della vista. Rimane il dubbio
    però che l'intelligenza sia qualcosa in più che una semplice funzione biologica. Forse,
    come hanno dimostrato i ricercatori di Cambridge e Berlino, davvero la corteccia frontale
    laterale e particolarmente attiva quando siamo alle prese con un problema. Ma non e detto
    che sia la sola a funzionare in quel momento. 
     
    Creatività e sregolatezza. Alcuni esempi.
     
     
    Albert Einstein il fisico tedesco padre della relatività, è il genio moderno per
    antonomasia. Eppure da piccolo fu considerato un bambino ritardato. 
     
    Arthur Rimbaud Poeta maledetto, soffriva spesso di allucinazioni. Tra avventure libertine
    e grande creatività, la sua geniale produzione si concentrò in soli quattro anni. 
     
    Ludvig Boltzmann Fisico austriaco, ha rivoluzionato la termodinamica. Soffrì a lungo di
    depressione e si suicidò in vacanza con moglie e figlia a Trieste. 
     
    Arthur Schopenhauer Il filosofo del Mondo come volontà e rappresentazione soffrì di
    manie di persecuzione alternate a periodi di autoesaltazione. 
     
    Ettore Majorana Solitario e depresso, il giovane fisico siciliano era il più brillante
    tra gli allievi di Enrico Fermi. Scomparve senza lasciare traccia a 31 anni. 
     
    August Strindberg Uno dei più grandi drammaturghi dell'800, in fuga da se stesso,
    ossessionato dalla gelosia e dalle manie di persecuzione. 
     
    Franz Kafka L'autore delle Metamorfosi soffrì di anoressia e di nevrosi ossessive: si
    privava di certi alimenti e si sottoponeva a bagni di acqua gelata. 
     
    Rainer Maria Rilke Tra i più grandi poeti europei del Novecento. Sull'orlo della
    schizofrenia fu accompagnato per tutta la vita da un senso di profonda angoscia. 
     
    Robert Schumann A 9 anni scrisse la prima opera. Da adulto affermò di comporre sotto
    dettatura degli angeli. Morì pazzo ossessionato da una sola nota: il "la". 
     
    Vincent Van Gogh L'impressionista olandese passava specie in estate fasi maniaco
    depressive alternate a periodi di esaltazioni. In un momento di crisi si taglio persino un
    orecchio. 
     
    P.S. Da notare che in Germania lo Stato offre una soluzione sperimentale con il Centro di
    Psicologia Scolastica per la promozione del talento. Finalmente dunque anche una struttura
    pubblica si affianca alla famosa scuola privata scozzese Cademuir International School che
    da tempo segue i bambini particolarmente dotati. 
    Il Cervello Umano 
    Il cervello umano è composto da due emisferi, quello
    destro e quello sinistro, ciascuno dei quali presenta una parte centrale bianca e una
    esterna fatta di materia grigia e ricca di pieghe, che viene chiamata corteccia. La
    corteccia è a sua volta suddivisa in lobi: il lobo frontale (sede dell'attività
    psichica), quello occipitale (che è responsabile della vista), il temporale (che elabora
    il linguaggio) e il parietale (sede della sensibilità tattile). 
     
    Recentemente, su Science, ricercatori dell'Università Ruhr a Bochum in Germania, ha
    pubblicato un rapporto che irrobustisce le (scarse) conoscenze sul rapporto tra attività
    cerebrale e assetto del cervello e cioè sull'affascinante quesito se la sua attività sia
    in grado di modificarne struttura e funzioni. Finora gli studi erano stati realizzati
    essenzialmente su animali: topi, scimmie, invertebrati. I ricercatori tedeschi hanno
    invece studiato umani ai quali, per alcune ore, è stato stimolato il polpastrello
    dell'indice destro. L'uso del dito ha prodotto una maggiore sensibilità, misurata come
    abilità di discriminazione tattile, e, al tempo stesso, un allargamento della sua
    rappresentazione nella corteccia sensoriale.  
    In proposito, occorre sapere che il nostro cervello contiene, in aree diverse, mappe che
    rappresentano il corpo nella sua interezza. Molto studiata da decenni, la mappa, collocata
    nella corteccia sensoriale, che rappresenta i confini del nostro corpo delineati dalla
    sensibilità cutanea. E si sa che in questa mappa la bocca, l'indice della mano dominante,
    i piedi, gli organi genitali occupano porzioni corticali più ampie del tronco o di altre
    parti del corpo ben più estese. La rappresentazione quindi non tiene conto della
    topografia della superficie corporea, ma delle sue funzioni; si sviluppa nel primo periodo
    della vita, quando il cervello struttura i suoi circuiti in funzione dei compiti
    dell'organismo, presenti e futuri, tra cui, innanzitutto, evitare i pericoli, mangiare,
    riprodursi.  
     
    Ma nel cervello adulto, è ancora possibile questa duttilità, questa malleabilità delle
    strutture nervose in rapporto alle funzioni? Lo studio citato risponde affermativamente al
    quesito in modo alquanto impressionante, data la semplicità dell'esperimento e l'uso di
    soggetti normali in buona salute. In precedenza, infatti, gli studi si erano concentrati
    su situazioni patologiche, come nel caso dell'amputazione di un dito o in quello di
    persone cieche dalla nascita che hanno imparato a leggere tramite le dita, con il Braille.
    Nella corteccia somatosensoriale della persona con il dito tagliato, si era riscontrata
    un'invasione di campo da parte dei neuroni rappresentativi delle dita vicine, nel caso
    invece delle persone cieche, addestrate nella lettura Braille, si è avuto un effetto
    opposto, un notevole allargamento della rappresentazione corticale delle dita (taluni
    leggono con tre dita contemporaneamente) o del dito usato per decifrare i caratteri. Si
    realizza dunque una riorganizzazione della corteccia, nel primo caso per carenza di input
    sensoriale, nel secondo per un aumento dell'input. Questa plasticità dei circuiti
    cerebrali inizia ad essere dimostrabile anche in altre aree legate all'apprendimento, non
    solo di tipo sensitivo, ma anche cognitivo. L'ippocampo destro dei tassisti londinesi più
    anziani è più ampio di quello dei colleghi più giovani, a dimostrazione che la maggiore
    abilità nel localizzare le strade della metropoli si riflette nella struttura dei
    circuiti cerebrali deputati alle abilità spaziali. Per dirla con Joseph LeDoux, famoso
    neurobiologo statunitense, di cui è in libreria "II Sé sinaptico", nel
    cervello umano "ci sono sempre nuove connessioni in attesa di essere realizzate"
     
    Scuola di medicina integrata www.simaiss.it  
     
    Per comprendere le basi biochimiche dell'aumento della rappresentazione corticale del dito
    stimolato, di cui si parla nell'articolo sopra, Hubert R. Dinse e colleghi, su Science,
    raccontano di aver somministrato ai volontari un farmaco che blocca un particolare
    recettore per il glutammato (il più diffuso neurotrasmettitore eccitatorio dei cervello),
    chiamato NMDA (n-metil-d-aspartato). Una singola dose del farmaco ha bloccato le maggiori
    capacità di discriminazione tattile acquisite con l'esercizio. Al contrario, la
    somministrazione di amfetamine ha prodotto un potenziamento dell'abilità. L'importanza
    del recettore NMDA per la formazione della memoria è stata dimostrata per la prima volta
    quasi venti anni fa: bloccando questo recettore non si interrompe il normale scambio tra
    neuroni all'interno della connessione (detta sinapsi), ma si impedisce che si realizzi un
    meccanismo chiamato potenziamento a lungo termine (LTP in sigla) che si pensa sia alla
    base della formazione dei ricordi. Invece, l'attivazione del recettore NMDA causa una
    serie di cambiamenti neineuroni connessi (detti pre e post-sinaptici, a seconda che
    inviino o ricevano l'input) con aumento della sintesi delle proteine, allargamento dei
    dendriti (la struttura neuronale ricevente), potenziamento del rilascio di glutammato da
    parte degli assoni (la struttura neuronale trasmittente). Le anfetamine hanno la capacità
    di potenziare la memoria poiché stimolano l'incremento di alcuni neuro-trasmettitori come
    la serotonina e la dopamina che sono in grado di attivare il recettore NMDA. La ricerca
    farmacologia è concentrata sui numerosi passaggi molecolari (su cui non è il caso di
    approfondire) che portano al potenziamento della memoria, tra cui' l'individuazione del
    gene che comanda la sintesi del recettore NMDA. L'obiettivo è la terapia genica dei
    sempre più diffusi disturbi della memoria e della cognizione. In attesa della pillola
    della memoria, (sarebbe utile ricordarsi di aprire la nostra farmacia interna, che è in
    grado di produrre serotonina e dopamina alla bisogna. Serve però la ricetta: buon umore,
    buona alimentazione e attività fisica e mentale ad ogni età.    Indice 
     
    Il Genio e il
    Lavoro di Gruppo 
    Creare è dare una forma al proprio destino. 
    Albert Camus 
     
    Le conseguenze all'atteggiamento creativo: indispensabile essere perplessi. 
    Erich Fromm 
     
    La compenetrazione di lavoro e felicità è in grado di consentire una vera esperienza. 
    Theodor W. Adorno 
     
    Genialità e Gruppo. La squadra ideale 
     
    E' una combinazione di persone in parte fantasiose e in parte concrete: così nasce la
    sintesi ideale. 
     
    Sono tolleranti e aperti a stimoli contrastanti. 
     
    Non hanno alcuna preclusione per le novità, soprattutto quelle tecnologiche. 
     
    Amano l'estetica. 
     
    C'è un obiettivo comune da condividere con entusiamo. 
     
    Un capo carismatico guida il team. 
     
    Bisogna lavorare in modo giocoso, condividendo anche momenti
    di svago che servano a ricaricarsi (saune, sport, musica, natura, giochi, ecc.) 
     
    E' importante rinnovarsi: ogni quattro anni il gruppo perde tensione e creatività. 
     
    La burocrazia è una nemica della creatività. 
     
    Un gruppo che funziona è un genio con tante teste e tante braccia. 
     
    Un allenamento colletivo continuo, questo è un altro segreto. 
     
    Il colpo di genio non basta più la vittoria è nel gioco di squadra 
     
    Lavoro di squadra. È questa la parola d'ordine per la riuscita di qualsiasi avventura. II
    genio, da solo, non basta più. In qualsiasi campo dell'ingegno ormai è assodato: la
    riuscita dell'opera è legata all'allenamento collettivo, all'incrocio delle idee, ai
    confronti continui. Solo così esce fuori dal team la formula del successo: fantasia più
    concretezza. Esce oggi "La fantasia e la concretezza" di Domenico De Masi
    (Rizzoli). "Dietro ogni vittoria, ogni successo ci sono i team - spiega De Masi che
    insegna sociologia del lavoro all'Università di Roma La Sapienza - ho studiato più di
    quattrocento gruppi creativi europei che vanno dall'istituto Pasteur al gruppo di Enrico
    Fermi, dalla Bauhaus al circolo letterario di Bloombsbury, dal Cavendish - il laboratorio
    in cui è stata scoperta la struttura del dna - fino all'industria del cinema. Bisogna
    applicare le regole del successo ai gruppi che hanno le caratteristiche per poter
    diventare creativi". 
    Già, perché non tutti i team hanno le carte in regola per riuscire nell' avventura.
    Secondo le statistiche, uno su tre in Italia e in Europa e il 38 % negli Usa - come è
    documentato in The rise of the creative class di Richard Florida (ed. Basic Books) ora in
    uscita da Mondadori. "La creatività è una sintesi tra fantasia e concretezza -
    aggiunge De Masi - ma  non bisogna commettere errori. Se il gruppo è soltanto
    fantasioso diventa velleitario, se è troppo concreto soffre di mal di burocrazia. La
    soluzione è mettere insieme personalità  diverse che possa riunire le due
    caratteristiche nello stesso nucleo. Fantasiosi non concreti e concreti poco fantasiosi.
    Come ad esempio nel binomio italiano vincente moda-design. "L'union sacré
    mode-de-seign" secondo L'Express, la strategia combinata tra stilisti e designer che
    segnalano all'estero il grande successo del made in Italy. "Un obiettivo vincente -
    commenta Giannino Malossi, docente di storia del design al Politecnico milanese Bovisa -
    oggi per dare l'idea di una creatività compatibile con il futuro dobbiamo fare un passo
    in più verso l'economia della conoscenza. La coscenza non è strettamente legata a un
    sapere geniale, ma alla capacità di elaborare un valore che viene incorporato nei
    servizi, nei prodotti, nelle merci. La conoscenza cresce con il contributo degli esperti.
    Nuclei interdisciplinari in cui informatici si integrano con umanisti, economisti,
    designer, artisti, architetti. Sono queste le squadre del futuro". E c'è anche un
    richiamo agli anni Sessanta in questo ritorno al gruppo. Scrive il New York Times:
    "Viviamo un nuovo momento collettivo. Si sta riaffacciando l'impulso anni `60. Sono i
    gruppi, proprio come le rockband, a produrre contemporaneamente pittura, scultura, arte
    digitale, video, performance musicali e design". 
     
    LE INTERVISTE 
     
    L'architetto Vittorio Gregotti: "Siamo in cinquanta" Uno scambio continuo e
    tanti piccoli passi. Non mi impongo mai" 
     
    "I nostri progetti nascono sempre in team". L'architetto Vittorio Gregotti ha,
    un gruppo di riferimento di dieci persone a cui se ne aggiungono altre sparse per il
    mondo. 
    Lavora da sempre in questo modo? "Sì da quando studiavo. Mi riconosco nel lavoro di
    squadra: non saprei farne a meno. All'inizio lavoravo nello studio Belgioioso Peressutti e
    Rogers. Eravamo tutti convinti che il lavoro in team fosse un modo di essere all'interno
    della pratica artistica, non una posizione manageriale". Come si diventa creativi in
    un gruppo? 
    "Facendo piccoli passi, piccoli gruppi tra Milano Venezia Parigi e Shangai. In tutto
    siamo una cinquantina. Discutiamo intorno al problema, ad esempio un edificio da
    risistemare in Cina o un teatro ad Aix-en-Provence. Bisogna vedere com'è fatto il posto
    quali sono gli stili di vita". Un sistema che funziona? "Sì. Perché esiste uno
    scambio continuo nei ruoli e nelle gerarchie del gruppo. È come fare un tessuto. Si va
    avanti, si torna indietro, si aggiunge un filo, se ne toglie un altro". E alla fine
    il progetto è pronto. 
    "Mi viene in mente il centro culturale di Belem a Lisbona con un museo e due saloni
    per le riunioni. Dovevamo collegare il gruppo milanese con gli specialisti spagnoli. Ci
    siamo riusciti". Ha mai ricevuto accuse per il suo carisma eccessivo? "Non credo
    di impormi troppo: uno dei difetti delle architetture è l'idea di voler esprimere la
    propria personalità a tutti i costi". Claudio Bisio, comico di Zelig:" Un
    gruppo di trenta" "Siamo tanti solisti ma lavoriamo insieme con grande
    armonia" "Ho sempre creduto nel team. Fin da quando facevo politica al liceo.
    Preparavo gli esami di gruppo. Adesso faccio ridere. Ma sempre in gruppo". Claudio
    Bisio, comico, è'sulla cresta dell'onda per il successo di Zelig in tv. Il team funziona
    anche per Zelig2 "Certo. Ci succhiamo reciprocamente il sangue".  Cosa
    succede durante le prove? 
    "Io, Gino, Michele e gli altri ci conosciamo tanto che andiamo avanti con i numeri
    delle gag. Sono sei anni di lavoro di gruppo". È questa la ricetta del successo?
    "Anche. Zelig non è un fuoco di paglia. Sotto c'è una brace forte: è il collante
    del nostro nucleo che fa venire le idee". Quanti siete? "Trenta persone. Ognuno
    con gusti diversi. La forza di Zelig è la varietà degli stili. Comicità demenziale,
    teatrale, intellettuale, surreale. Ciascuno rispetta il lavoro degli altri. Facciamo poche
    riunioni, usiamo molto fax e mail". Un gruppo vincente? "A quanto pare sì.
    Ognuno di noi è un solista che non rinuncia al suo assolo. Non c'è un direttore
    d'orchestra. Facciamo scalette di massima sulle puntate successive. Così tutti sanno cosa
    possono fare mentre i gruppi dei comici lavorano". E le idee come vengono? "Di
    sabato quando riposiamo o la domenica sera. Ci ritroviamo al vecchio Zelig di viale Monza
    140. E proviamo, con il pubblico. Siamo senza trucco, senza telecamere. Nasce qui la
    nostra creatività". 
     
    Ambra Somaschini Repubblica 20 febbraio 2003 
     
    Genialità e Matrimonio 
     
    Una volta si diceva che il matrimonio è la tomba dell'amore. Secondo una nuova teoria il
    matrimonio è anche la tomba di ogni forma di genialità creativa, una gabbia, una
    trappola, una scelta che tarpa le ali a ogni uomo d'ingegno, lo mette in pantofole, lo
    intorpidisce, lo frena. Vero? Falso? A sostenere questa teoria è uno studio condotto su
    centinaia di uomini illustri: scienziati, pittori, musicisti, scrittori e, curiosamente,
    anche criminali, per i quali scatterebbe lo stesso identico meccanismo.  
    Gli uomini raggiungono i loro maggiori successi, hanno le loro intuizioni di genio in età
    giovanile, fra i 20 e i 30 anni, nei primissimi anni matrimonio e ancora di più se
    restano (o tornano) single. Alla radice di questo sensibile calo di produttività vi
    sarebbe un calo nel livello di testosterone, che coincide con il matrimonio e che invece
    torna a risollevarsi in caso di divorzio. Le donne, al contrario, mostrano un andamento
    costante nella propria realizzazione, del tutto indifferente alla curva ormonale. 
    I risultati di questa ricerca, dal titolo "Perché la produttività diminuisce con
    l'età, la  
    connessione crimine-genio", sono stati pubblicati dal journal of research in
    personality e recano la firma dello psicologo Satoshi Kanazawa (40 anni, sposato),
    ricercatore all'Università di Canterbury, Nuova Zelanda, e alla London School of
    Economics. "Una persona che non ha dato il suo grande contributo alla scienza prima
    di aver compiuto trent'anni  
    non lo darà mai": partendo da questa affermazione di Albert Einstein (che elaborò
    la teoria della relatività a 26 anni), Satoshi Kanazawa ha esaminato e comparato le
    biografie di 280 scienziati, molti premiati con il Nobel, 719 musicisti, 739 pittori, 229
    scrittori più un numero imprecisato di criminali. 
    In tutte le categorie si ripetono le stesse dinamiche. Sposarsi significa dire addio, più
    che alla carriera, all'illuminazione del genio, affinato e tenuto in esercizio per
    conquistare una compagna e assicurarsi la migliore progenie possibile: dopo, il nulla, o
    quasi. La vecchia storia della lotta per la sopravvivenza. I matematici in particolare,
    superati i 25 anni, sembrano refrattari a qualunque lampo di genio, specie se sposati.
    L'età che rappresenta il picco della creatività attorno ai trent'anni - è la stessa sia
    per gli scienziati che per gli artisti. Una creatività che sembra bloccarsi e segnare il
    passo in caso di matrimonio, tragicamente addomesticata. 
    Uno scienziato su quattro, se sposato, non fa più nessuna scoperta di rilievo dopo i
    primi cinque anni di matrimonio, anzi, tende a fermarsi del tutto. Invece uno scienziato
    su due, fra quelli che non sono sposati, cominua a utilizzare e ad aguzzarezare il proprio
    ingegno con risultati più che lusinghieri fino ai 50 e anche ai 60 anni. Soltanto un
    magrissimo quattro per cento degli scienziati coniugati ha una qualche intuizione di
    rilievo in età matura. Sposarsi e anche mettere al mondo dei figli sembrerebbe dunque un 
    grave impedimento al genio.      
    La categoria più colpita, secondo questa ricerca, sarebbe quella dei chimici. Quanto ad  
    Einstein, è vero che pubblicò la teoria della relatività quando aveva appena 26 anni,
    ma è anche vero che al suo fianco, a fornirgli un aiuto anche di rilievo scientifico,
    c'era la moglie Mileva Marcovic sua ex compagna di corso al Politecnico di Zurigo, dalla
    quale si affretterà però a divorziare non appena baciato dal successo. 
    Così fluttua il testosterone. Criminalità e genio hanno un elemento in comune, conclude
    la ricerca: entrambi vengono depressi dal matrimonio. "Mettere la testa a posto"
    per  
    un rapinatore ha probabilmente un significato diverso di quello che ha per un fisico
    nucleare. I risultati tuttavia sono gli stessi: il matrimonio redime e insieme ottunde, il
    genio si appanna in una categoria, quella dei delinquenti, che vede la massima esplosione
    di iniziativa in età estremamente giovanile, se non addirittura nell'adolescenza. 
     
    Davvero il matrimonio tarpa le ali all'uomo di genio, lo spinge a tirare i remi in barca,
    fa sì che si sieda? Avere moglie e figli dunque diventa un handicap nella corsa verso la
    gloria? Lo abbiamo chiesto allo psicoanalista Claudio, Risé, autore di numersi saggi
    sulla crisi del maschio e del suo ruolo di amante, marito, genitore. L'ultimo è "Il
    padre, l'assente inaccettabile". Matrimonio uguale tomba del genio. Concorda? 
    "Non mi sembra poi così infondata. Sicuramente il matrimonio, portando un maggiore
    equilibrio nella Vita dell'uomo, sposta una considerevole quantità di libido - intesa
    come energia psichica complessiva - su oggetti d'amore stabili come la moglie e i
    figli". 
    E quindi? "E quindi sottrae il monopolio di questa libido dalla ricerca intellettuale
    che l'uomo ha in corso. È molto possibile che tutto questo comporti una diminuzione sia 
    in termini di produttività, sia in termini di illuminazioni, consentite spesso da un
    esclusivo investimento dell'intelligenza nella propria ricerca. Questo comporterà anche
    una maggiore umanità, assieme a minori lampi di genialità, e a minore attenzione e
    concentrazione. Lo ha già teorizzato Thomas Mann in un suo celebre saggio sul matrimonio,
    che spesso va a discapito di una, diciamo così, unilateralità di tipo estetico
    nell'artista". 
    Ritiene possibile fare un parallelismo fra uomini di genio da una parte e criminali
    dall'altra? 
    "Certo. Possiamo fare lo stesso discorso. Anche il criminale, paradossalmente, può
    essere considerato un artista nel suo campo. E dunque scattano gli stessi meccanismi. Uno
    dei più grandi avvocati penalisti italiani, Alberto Dall'Ora, mi ha raccontato di essere
    spesso affascinato dalla personalità dei suoi assistiti, considerandoli dei veri e propri
    artisti nella loro specialità, in particolare i ladri e i truffatori. Se un criminale si
    innamora e si sposa, sarà meno interessato a svaligiare una banca o a mettere in atto la
    truffa del secolo".  
     
    ALBERT EINSTEIN 
    Scopre la relatività a 26 anni, fa eccezione perché è sposato da due. E la moglie avrà
    un ruolo nella scoperta 
    ORSON WELLES 
    A 26 anni aveva già diretto "Quarto potere", acclamato per i procedimenti
    narrativi innovativi 
    J.D. SALINGER 
    Ha 31 anni quando scrive il suo romanzo più importante, "II giovane Holden",
    con cui si afferma 
    PAUL MCCARTNEY 
    Dopo i 25 anni non scrive più successi. Nel '69 sposa Linda: qualche mese dopo i Beatles
    "muoiono". 
    PIERRE CURIE 
    Ha 39 anni quando, con la moglie Marie, annuncia la scoperta del radio e del polonio.
    Sposati da 3 anni. 
     
    Laura Laurenzi Repubblica 26 ottobre 2003 
     
    Genialità
    e Idee. L'ideoma 
     
    Dopo il genoma, nascerà l'ideoma, una mappa delle idee. 
     
    Dopo la mappa del geoma umano, già realizzata; e quella del cervello, che fa ottimi
    progressi, forse è in arrivo anche una mappa delle idee. La propone Darryl R. J. Macer,
    un ricercatore dell'Istituto di Scienze Biologiche dell'università di Tsukuba, in
    Giappone, secondo il quale i tempi sono ormai maturi per applicare gli strumenti della
    scienza alla materia più sfuggente e complessa di tutte: le idee generate dalla mente
    umana. Con l'obiettivo finale di costruire "una mappa che descriva la diversità
    delle idee prodotte da un essere umano in qualunque situazione o dilemma". 
    Dopo il genoma, è quindi l'ora dell'ideoma, come la stampa ha già battezzato la proposta
    di Macer, che darà ufficialmente il via all'ambizioso progetto il prossimo 15 febbraio,
    in un convegno internazionale dal promettente titolo: "Proposta per una mappa
    integrativa delle idee umane". Le quali idee, secondo il ricercatore possono anche
    sembrare infinite, e così diverse da un individuo all'altro che non siamo mai certi di
    quel che passa nella mente di chi ci sta di fronte. Ma gli studi scientifici in campi come
    la psicologia, la sociologia e l'etica, obbietta Macer in una lettera che la rivista
    Nature pubblica nel suo ultimo numero, oggi indicano invece che questa incertezza potrebbe
    essere superabile. O comunque che oggi abbiamo gli strumenti scientifici per provarci. Il
    numero delle idee, ragiona Macer, è finito perché malgrado le molteplici influenze
    (genetica, storia personale, famiglia, cultura e apprendimento) che contribuiscono alla
    loro formazione, il numero delle possibili opzioni di cui dispone un essere umano quando
    è alle prese con un dilemma è limitato. Se definiamo un'idea come la
    "concettualizzazione mentale di qualcosa, inclusi oggetti fisici, azioni e
    comportamenti avuti o che si potrebbero avere in futuro, oppure esperienze sensoriali
    passate, presenti o future, ecco che per avere l'ideoma basterà "mappare tutte le
    idee legate ad ogni possibile scelta di ogni relazione possibile, insieme a tutte le
    reazioni effettivamente avute in ciascun caso". Operazione evidentemente non banale.
    Ma tanto per cominciare, si può provare a raggruppare le idee in alcune grandi categorie.
    Di queste "classi di idee", Macer ne elenca nove, da quelle catalogabili come
    "concettualizzazioni di oggetti fisici; alle "memorie"; alle
    "intenzioni di modifica del proprio comportamento" e via dicendo.
    Sciaguratamente, il ricercatore non fornisce esempi di cosa metterebbe nelle varie classi,
    ma lascia intendere: che la loro lista potrebbe allungarsi, arricchendosi di gruppi e
    sottogruppi. Lo scopo dell'ideoma invece è più chiaro, certamente anche nobile. La
    mappatura delle idee umane, spiega Macer, è importante per lo sviluppo della società
    globale, e servirà a superare differenze ed equivoci quando si tratta, ad esempio, di
    decidere su temi scottanti come la clonazione. Sarà una mappa per aiutare gli umani a
    capirsi di più tra di loro. 
     
    GLI OGGETTI 
    Le prime due categorie di idee riguardano le concettualizzazioni di oggetti e i
    significati psicologici delle immagini ad essi associate 
     
    LE MEMORIE 
    La terza categoria presa in considerazione riguarda la vasta gamma delle memorie che
    ciascuno accumula nel tempo. 
     
    I PROGETTI  
    Altre tre categorie sono quelle dei piani per il futuro, delle intenzioni di modificare il
    proprio comportamento e di modificare quello degli altri. 
     
    LE SENSAZIONI  
    L'elenco si completa con gli stati sensoriali (dolore e piacere), le inibizioni e le
    concettualizzazioni interattive dì idee sviluppate da una comunità. 
     
    Claudia Di Giorgio Repubblica venerdi 15 novembre 2002    
	 
	Indice 
     
    
	Cervelli
    e Ricerca. Il penoso stato dell'Italia. 
     
    Cervelli in fuga, tornare si può, solo gli Italiani restano in Usa. 
     
    L'identikid dei cervelli fuggiti.  fino a 30 anni parte il 13,5, dai 31 ai 35 parte
    il 32,8, dai 36 ai 40 parte il 26,0, dai 41 ai 46 parte il 13,5.  
     
    Dove Sono 
     
    Stati Uniti il 37,4, Regno Unito il 21,5, Francia il 10,8, Altri Paesi Ue il 15,1, Altri
    Paesi il 14,3. 
     
    Cosa pensano della fuga dei cervelli 
     
    Il fatto che molti ricercatori italiani svolgano la propria attività all'estero è:
    patologico perché denota una deficienza strutturale degli Istituti di Ricerca e delle
    Università Italiani per l'85,7 per cento. Mentre è assolutamente fisiologico e rientra
    nel processo di globalizzazione del mondo scientifico per il 14,3 per cento. 
     
    Alla domanda tornerebbe in Italia il 7,3 per cento degli intervistati ha risposto
    certamente si, il 20,5 ha detto certamente no, mentre il 43,2 per cento sarebbe disposto a
    tornare a condizione che....... 
     
    Le condizioni per Tornare 
     
    Le risorse disponibili per le attività di ricerca 59,6, Condizioni Economiche migliori
    56,0, Prospettive di un più rapido sviluppo di carriera 50,9, Per svolgere attività di
    ricerca non coltivate in Italia 24,9, Certezza nei tempi di sviluppo della carriera 24,1 
     
    Con la Spagna siamo l'unico paese europeo ad avere più partenze di giovani talenti che
    rientri. La Microsoft da sola investe in ricerca il 60 per cento di quello che spende
    l'Italia, privati compresi.  
     
    Personaggi famosi che non sono mai rientrati: Luca Cavalli Sforza, il famoso genetista,
    pioniere della biogenetica; Mario Mazzola, Vicepresidente della Cisco, che produce
    hardware e software per Internet; federico Faggin, il professore, padre del
    microprocessore di Intel. E' negli Usa dagli anni sessanta; Guerrino de Luca, è uno dei
    top manager della Logitech, colosso dell'hardware della Silicon Valley californiana. 
     
    Eccome se è possibile, il "ritorno a casa" dei cervelli emigrati all'estero. Ne
    sa qualcosa la Silicon Valley californiana, il centro mondiale delle tecnologie avanzate,
    alle prese con un problema nuovo: gli ingegneri indiani, i matematici cinesi che hanno
    fatto la sua fortuna, stanno davvero tornando a casa. Attirati dal boom delle due potenze
    emergenti - la Cina con un Pil che cresce dell'8% all'anno, l'India del 7% - migliaia di
    imprenditori, scienziati e manager di origine asiatica subiscono il fascino di Shanghai e
    di Bangalore, le Silicon Valley d'oltre Pacifico. E poi, anche se la capacità di
    attrazione degli Stati Uniti resta comunque forte, l'll settembre ha avuto una conseguenza
    pesante. Le nuove leggi antiterrorismo hanno imposto controlli minuziosi sul rilascio dei
    visti agli stranieri. La rete dei consolati americani all'estero è ingolfata dalle
    procedure di sicurezza. Il rilascio dei famosi H1-B - i permessi di lavoro su chiamata
    nominativa concessi su richiesta dell'industria per consentirle di reclutare tecnici e
    ricercatori dal resto del mondo - ora procede col contagocce. Lo stesso per docenti e
    studenti. E' un problema serio per l'America, visto che il 40% dei suoi scienziati di
    elettronica sono stranieri, un terzo dei premi Nobel che fanno ricerca nelle sue
    università hanno passaporto estero, e nella Silicon Valley il 30% delle imprese
    tecnologiche sono state fondate da immigrati asiatici. 
    E' un problema per l'America, dovrebbe trasformarsi in un'opportunità per noi. La
    lentezza nel concedere visti per motivi di studio potrebbe arginare la fuga dei cervelli
    italiani. Purtroppo non è così. In Cina e in India il flusso nonè più a senso unico,
    alcuni talenti scientifici cominciano anche a ritornare a casa, in Italia invece la
    direzione di marcia è una sola: continuano a scappare. Come il celebre professor Ignazio
    Marino che ha abbandonato il centro trapianti Ismett di Palermo, afflitto da troppi
    problemi burocratici e di finanziamento, ed è tornato negli Stati Uniti. 
    Perché l'Italia non riesce a creare un flusso di ritorni - anche solo parziale - lo,
    spiegano in una lettera aperta settanta giovani ricercatori italiani che lavorano qui per
    la Microsoft di Redmond-Seattle. Questi settanta sono "stati cercati". Li ha
    reclutati uno per uno la Microsoft, se li è andati a selezionare tra l'élite dei
    migliori laureati delle nostre università. In visita al quartier generale di Bill Gates
    (che si chiama campus, come un college universitario), il ministro italiano
    dell'Innovazione Lucio Stanca se li è trovati tutti davanti, quei settanta giovani
    connazionali. 
    Gli hanno messo nero su bianco i motivi per cui se ne sono andati. Eccone uno: perché la
    Microsoft da sola "investe 6 miliardi di dollari in ricerca ogni anno", cioè il
    60% di quel che spende (male) l'Italia intera, lo Stato più le università più tutte le
    nostre imprese messe assieme. Quindi la soddisfazione di lavorare per creare
    "innovazioni che hanno un impatto su un enorme numero di utenti": E poi il
    vantaggio di "un ambiente di lavoro multi-culturale, dove l'interazione con persone
    provenienti da culture differenti obbliga a ragionare in termini globali e costituisce
    territorio fertile per la creazione di nuove idee. "Alcuni di loro tornerebbero anche
    volentieri in Italia - ha ammesso Stanca - ma dove? A fare che cosa? " Grande
    industria tecnologica non ne abbiamo più. 
    I settori, tradizionali del made in Italy sono avari di investimenti in ricerca. In quanto
    all'università, assomiglia sempre di più a un buco-nero, che inghiotte e distrugge ogni
    speranza di richiamo dei cervelli italiani fuggiti all'estero. La nostra è infatti una
    politica avara di finanziamenti ed in più il blocco delle assunzioni è quanto di più
    lontano ci possa essere dal vigoroso dinamismo delle università americane. L'Italia sta
    producendo un' università di vecchi, dove per il mancato ricambio generazionale l'età
    media dei docenti sfiora ormai i 60 anni. E chi mai dovrebbe abbandonare i centri di
    ricerca della Microsoft, i laboratori di Berkeley o Stanford o del Mit per rientrare in
    un'università presidiata da cariatidi avvinghiate alle loro poltrone. In quanto agli
    investimenti del sistema paese per la ricerca, con l'1,07 del Pil l'Italia è molto
    staccata dall'Europa (dove la media è dell'1,9%), essa stessa in grave ritardo sugli
    Stati Uniti che dedicano alla scienza il 2,8 % del loro reddito nazionale. Il privato è
    colpevole quanto il pubblico, infatti il nostro capitalismo è il più arretrato e miope
    di tutta l'area del G7: Le imprese italiane non credono alla ricerca, il loro contributo
    è appena il 43% dell'investimento nazionale - già basso-contro il 56% nell'Ue e il 66%
    negli Usa. l nostri settanta giovani alla Microsoft nella loro lettera aperta invocano
    "maggiore integrazione tra università, e mondo del lavoro". Se questo rapporto
    da noi non funziona, le responsabilità sono equamente ripartite. Stanca ricorda che
    perfino alla Bocconi - che si vorrebbe la - più cosmopolita delle università italiane -
    solo l'1% dei finanziamentì viene dall'industria, contro il 30 % di fondi privati che
    affluiscono alla sua concorrente francese, l'Insead di Paris-Fontainebleau. 
    E' sconcertante che una nazione di antica industrializzazione perda colpi anche in questo
    campo rispetto a Cina e India. Loro già riescono a far tornare una parte dei loro
    cervelli che hanno studiato in America, l'Italia al contrario vede aggravarsi la sua
    patologia: l'emigrazione dei talenti è quadruplicata negli ultimi dieci anni, si è
    passati dall'1% al 4% dei laureati (possono sembrare pochi, ma non lo sono perché è
    l'élite, il vertice della piramide che sparisce all'estero). Con, la Spagna, siamo
    l'unico paese europea ad avere più partenze che arrivi di stranieri. E i nostri trovano
    un ambiente talmente più ricco di opportunità oltre il confine, che se ne vanno davvero
    per sempre. La prova: il Censis ha calcolato che il 76% di tutti i cervelli italiani
    emigrati vive all'estero da più di dieci anni. Le cause dell'esodo? Al primo posto la
    burocrazia della ricerca, poi la mancanza di laboratori adeguati, gli stipendi troppo
    bassi. Tutti mali che difficilmente saranno curati con iniziative d'immagine come la
    creazione dell'Lit, prima ancora di nascere battezzato pomposamente "il Mit
    italiano". 
    Senza sapere, forse, che il miliardo di euro di stanziamento previsto dal governo italiano
    per questa super facoltà, è la ventesima parte del fondo di dotazione di una grande
      università come Harvard o Stanford. Scimmiottare l'America nelle sigle, fare il
    contrario dell'America nella sostanza: sembra la regola taliana.  
    Prima di Stanca, decine di delegazioni governative sono venute in pellegrinaggio a
    studiare il "miracolo" della Silicon Valley. Incontrano Federico Faggin, padre
    dei microprocessori Intel; i top manager della Cisco Mario Mazzola e della Logitech
    Guerrino De Luca; i venture capitalist Enzo Torresi, Pierluigi Zappacosta, Giacomo Marini,
    Gianluca Rattazzi; il pioniere della biogenetica Cavalli Sforza, il co-fondatore della
    Genentech Roberto Crea. Non uno di  
    questi talenti è stato mai convinto a fare i bagagli e tornare in Italia. 
     
    Federico Rampini Repubblica 23 Novembre 2003    
	Indice 
     
    
	La ricerca nel mondo e in Italia. Un parere illustre 
    Dedicato a tutti quei politici, industriali,
    burocrati e stupidi intellettuali o artisti da strapazzo che non sostengono la ricerca
    scientifica e nemmeno hanno tanto riguardo o rispetto per chi gli fa notare la loro
    vanitosa e insulsa ignoranza. Dedicato a tutti quei personaggi che alimentano lo
    sfruttamento, le connivenze, i privilegi e le diseguaglianze nel mondo.  
    Investimenti in ricerca scientifica in
    percentuale del PIL 
     
    Giappone 2,12 Stati Uniti 1,97 Germania 1,66 Francia 1,38 Regno Unito 1,22 Media Unione
    Europea 1,19 Canada 1,06 Russia 0,72 Italia 0,53 
     
    Numero di Ricercatori 
     
    Giappone 644.208 Stati Uniti 1.148.271 Germania 238.944 Francia 156.004 Regno Unito
    147.035 Media Unione Europea 784.006 Canada 90.245 Russia Italia 69.621 
     
    Pubblicazioni Scientifiche periodo 1997-2002 
     
    Stati Uniti 34,86 Citazioni 49,43 Unione Europea 37,12 Citazioni 39,30 Regno Unito 9,43
    Citazioni 11,39 Germania 8,76 Citazioni 10,02 Giappone 9,28 Citazioni 8,44 Francia 6,39
    Citazioni 6,89 Canada 4,58 Citazioni 5,30 
     
    La produzione scientifica mondiale proviene da soli 31 paesi su 193. Sono 200.000 i visti
    Usa concessi a medici, scienziati e ricercatori nel 2003. 
    Nel mondo il sapere scientifico è concentrato al 98% in 31 paesi e all'84,5% nelle mani
    delle nazioni del G7 (Più la Svizzera). Quanto ai finanziamenti il nostro paese è ultimo
    tra quelli del G8. Per quanto riguarda il rapporto tra il PIL e ricerca scientifica - più
    questo rapporto è alto più è efficiente il paese nel campo della ricerca - il primato
    mondiale spetta alla Svizzera, seguita da Svezia ed Israele, con gli Stati Uniti
    all'11esimo posto e l'Italia al 16esimo. Se analizziamo i paesi del G8 sui finanziamenti
    dell'industria nella ricerca e nello sviluppo scientifico il primato spetta al Giappone,
    al secondo posto troviamo gli Stati Uniti, seguiti da Germania, Francia, Gran Bretagna e
    Unione Europea. L'italia è ultima dietro il Canada e la Russia. La nostra industria
    spende lo 0,53% del PIL contro il 2,12 del Giappone, l'1,79 degli Usa e l'1,19 della media
    europea. Dieci anni fa l'Italia spendeva il 3,4 per cento. In dieci anni i soldi per la
    ricerca si sono ridotti a un quinto. 
     
    L'Europa è al secondo posto dopo gli Stati Uniti per produzione di ricerca scientifica ma
    il distacco è tale che non ha senso parlare di competizione.Il 62% degli articoli
    scientifici più significativi, pubblicati tra il 1997 e il 2001, è targato Usa mentre
    tutti insieme i quindici paesi della vecchia Unione Europea sono arrivati al 37%. La
    seconda nazione più produttiva è stata la Gran Bretagna cori ìl 12,78% mentre l'Italia
    si è posizionata solo al settimo posto con il 4,31%. Un tale distacco è il frutto di una
    precisa strategia, vincente, perseguita da cinquant'anni: negli Stati Uniti i cosiddetti
    "cervelli" vengono considerati unarisorsaperlacrescita del paese, una condizione
    sine qua non per garantire progresso, tecnologia e sviluppo economico. Per questo hanno
    intrapreso una politica volta ad attrarre medici, scienziati e ricercatori da tutti i
    continenti (nel 2003 i visti concessi a stranieri altamente qualificati sono stati quasi
    duecentomila) e così si  
    sono arricchiti, e continuano a farlo, mentre gli altri paesi perdono risorse preziose per
    di più dopo averle formate. L'Italia è uno dei paesi che subisce l'esodo dei suoi
    ricercatori e riduce, in modo lento ma inesorabile, la propria capacità di sviluppo. Gli
    investimenti negli ultimi dieci anni sono diminuiti di cinque volte portando l'Italia
    all'ultimo posto fra i paesi del G8, allo stesso livello della Polonia. Paradossalmente,
    la qualità del lavoro degli scienziati è molto buona, soprattutto se analizzata in
    rapporto agli scarsi investimenti. Vale a dire: i cervelli in Italia ci sono ma lavorano
    in condizioni precarie, è facile così dedurre che se fossero finanziati adeguatamente
    potrebbero eccellere. Eppure, a favore della ricerca si leva un coro di voci unanime, dal
    governo ai centri di ricerca, alle università, fino ai rappresentanti degli industriali
    sono tutti d'accordo servono maggiori investimenti per rendere l'Italia più competitiva e
    per la modernizzazione del paese. A me sembra che per aspirare a questi ambiziosi
    risultati bisognerebbe prima avere le idee chiare e una strategia in mente. Il Giappone,
    per esempio, ha scelto la strada della fidelizzazione: si assumono ricercatori anche senza
    una formazione di alto livello ma il posto di lavoro rimane lo stesso per tutta la vita,
    così la formazione avviene internamente e il ritorno sull'investimento è assicurato sul
    lungo periodo. Gli Usa hanno invece adottato l'atteggiamento opposto: si assume solo
    personale altamente specializzato pronto a produrre, meglio se straniero e quindi già
    formato nel paese d'origine, e in questo modo non si spende nemmeno un dollaro per i corsi
    di formazione. In Italia, per il momento, l'unica strada che si segue è quella della
    generosità: formare i ricercatori e poi lasciarli andare all'estero a tutto beneficio del
    paese di destinazione. Per invertire questa tendenza sarebbe necessario aggioranre la
    formazione universitaria e post-universitaria e modificare percorsi professionali e salari
    dei ricercatori di maggior talento. Inoltre, sarebbe auspicabile suddividere la
    responsabilità: le istituzioni dovrebbero occuparsi di stabilire le linee guida, in
    accordo a quelle fissate a livello europeo, ma anche di porre fine agli inutili quanto
    intoccabili feudi personali, refrattari al cambiamento e responsabili di tanta
    stagnazione. Il settore produttivo, legato ai grandi gruppi industriali, dovrebbe
    contribuire in modo consistente a finanziare la ricerca, come è accaduto in Gran Bretagna
    dove, grazie alla partecipazione dei privati a favore della ricerca pubblica, negli
    anni'90 il paese ha registrato il più elevato tasso diinvestimenti in ricerca del mondo. 
    L'Italia, a mio avviso, ha bisogno di un cambio di rotta radicale, di una cultura nuova,
    da inventare. Non è un processo impossibile piuttosto è inevitabile dal momento che
    facciamo parte di quel ristretto gruppo di nazioni ricche che vuole avere l'autorità di
    guidare le scelte del mondo. Non si può appartenere al G8 e non mettere i nostri
    scienziati nelle condizioni di studiare e proporre strategie per le sempre più urgenti
    problematiche globali. La ricetta è semplice: delineare le aree strategiche, aumentare la
    percentuale di investimenti pubblici ma anche incentivare i privati, sollecitare proposte
    dai ricercatori e poi distribuire i finanziamenti sulla base di un processo di selezione
    pubblico e trasparente.  
    Forse si dovrebbe rinunciare anche ad opere faraoniche di dubbia utilità come il ponte di
    Messina ma certo si farebbe fare un bel saltò di qualità al paese. 
     
    Iganzio Marino Direttore del Dipartimento Trapianti d'Organo, Jefferson Medical College,
    Philadelphia, Usa Da Repubblica del 24 luglio 2004  Indice 
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