George Soros è nato nel
    1930 a Budapest da una famiglia dell'alta borghesia ebraica. nel 1947 si è trasferito in
    Inghilterra per studiare alla London School of economics, dove tra gli altri ha avuto come
    docente il filosofo Karl Popper, cui ha rivendicato di ispirarsi in tutta la sua vita. Nel
    1956 è andato a vivere a New York, dove ha iniziato una carriera nella finanza che doveva
    portarlo negli anni successivi a straordinarie fortune. Nel 1969 ha fondato la Quantum
    Fund, una finanziaria di gestione di capitali che è stata a lungo la famiglia di fondi
    d'investimento più capitalizzata del mondo. 
    A cambiare i destini del mondo, Geroge Soros, finanziere, filantropo e filosofo, ci è
    ormai abituato. Nella notte del 16 settembre 1992, con una speculazione forsennata al
    ribasso provocò il crollo della sterlina e della lira e forzò la loro uscita dal sistema
    monetario europeo. In quella notte Soros guadagnò ben un miliardo di dollari. In
    associazione con altri egli contribuì anche al crollo del famoso muro di Berlino (9
    Novembre dell'89), infatti egli aveva giocato una grandissima parte nello smantellamento
    della pseudo ideologia comunista dell'est. Nel 1979 aveva infatti fondato la potentissima
    e ricchissima Open Society Foundation www.soros.org che
    dovrebbe richiamarsi nei contenuti alla Open Society
    Organization : uffici in tutte le capitali dell'est, dalla natia Budapest fino a Mosca
    e aveva portato avanti un'opera martellante di indottrinamento, di master, di convegni, di
    interventi, di eventi di piazza, tutti all'insegna del liberismo capitalista e della
    spiegazione che le teorie collettivistiche non avrebbero retto. 
    Ora ha deciso che finanzierà i Democratici alla casa bianca nelle elezioni americane del
    novembre del 2004. Per dimostrare che sta facendo sul serio, Soros ha messo a disposizione
    i primi 10 milioni di dollari e ha anche indicato quattro possibili candidati. La sfida
    del finanziere filantropo è infatti doppia: prima far vincere la nomination a uno dei
    suoi candidati prediletti e poi condurre il prescelto fino alla Casa Bianca. per i
    Democratici Soros non baderà a spese, anche se battere Bush non sarà un'impresa da poco,
    infatti il presidente odierno dispone di una macchina da finanziamenti poderosa, in grado
    si dice di garantirgli fino a 100 milioni di dollari. L'appoggio del finanziere
    speculatore alle correnti di pensiero più avanzate e progressiste del paese si spiega
    leggendo i suoi libri. Soros infatti è stato allievo di Popper e si autoproclama
    continuatore della sua dottrina. 
    nel libro L'Alchimia della Finanza del 1989 Soros traccia un lungo excursus sulle logiche
    e i segreti del mercato. Non mancano ovviamente ampie rivelazioni sui punti deboli delle
    strutture di sicurezza anti-speculazione, proprio quelle che in più di un'occasione
    l'autore si è divertito a violare e perfino consigli su una banca centrale internazionale
    e su un nuovo sistema di controllli incrociati. C'è poi una lunga riflessione sulla crisi
    di Wall Street del 1987 (il 17 ottobre di quell'anno Wall Street perse in un giorno solo
    il 22,4%) e una conclusione à la philosophe: così come Keynes nella sua Teoria generale
    dell'occupazione, dell'interesse e della moneta aveva dimostrato che la piena occupazione
    era un'eccezione, così - secondo Soros -l' equilibrio sui mercati si deve considerare
    un'eccezione. Insomma, homo homini lupus, e vinca il migliore. 
    Nel secondo libro (Soros su Soros, 1995) queste granitiche certezze iniziano a vacillare.
    Sono spariti i toni autocelebrativi e si fa strada una vena di riflessione politica, di
    giudizio sulla politica e sui processi storici. Fino a prendere di petto Newt Gingrich,
    repubblicano ultraconservatore, antesignano dei newcon di Bush e Rumsfeld, che era
    diventato presidente della Camera: "Capisco il risentimento motivato dal
    "Contratto con l'America" (una specie di manifesto politico elettorale di
    Gingrich), soprattutto per la parte che riguarda il welfare (Gingrich sosteneva il metodo
    dell'assistenza basata sul mercato che esclude i poveri). E' giunto il momento di
    cambiare. Siamo in un momento in cui il pendolo  oscilla dalla parte opposta al
    welfare. Ma non si dimentichi che ogni costruzione  umana ha un punto debole, un
    difetto. Questo è vero per qualsiasi sistema monetario come è vero per il welfare state.
    Più a lungo dura il sistema, più evidenti diventano le sue deficienze". Ma è nel
    suo ultimo libro che la revisione di Soros si compie. A partire dal titolo: La crisi del
    capitalismo globale. Attenzione alle date: il libro è del 1999, all'apice del nuovo
    grande boom di Wall Street, e quindi verosimilmente delle fortune di Soros, uno che di
    andamento dei mercati ci vive. Eppure, cosa scrive? Fa un panegirico di pagine e pagine di
    Alan Greenspan quando il capo della Fed mette in guardia contro l' "irrazionale
    esuberanza". E' spietatamente critico con il Giappone che ancora paga le spese di un
    liberismo naufragato ("Al ministero delle Finanze di Tokyo attualmente sono rimasti a
    corto di trucchi e di alchimie"). Addita il Long Tenn Capital Management, un grosso
    hedge fund fallito pochi mesi prima (così come peraltro è un hedgefund il suo Quantum),
    come un esempio di rischi assunti con arbitrarietà, incoscienza e sprezzo delle più
    elementari regole di saggezza. E conclude risolutamente con l'affermazione che i
    "valori economici di per sé non possono bastare a s sorreggere una società.
    esprimono soltanto quel che un singolo soggetto del mercato è disposto a pagare a un
    altro in cambio di qualcosa. Tali valori presuppongono che ciascun soggetto sia un centro
    di profitto dedito a massimizzare i propri utili a esclusione di qualsiasi altra
    considerazione. Anche se questa descrizione corrisponde al comportamento di mercato,
    devono pur esserci altri valori alla base della società, anzi della vita umana". 
    Così, il cerchio si chiude, fino all'apoteosi di questi giorni. "L'America sotto
    Bush è un pericolo per l'umanità", ha tuonato l'altro giorno nella conferenza
    stampa in cui ha annunciato la sua sponsorship ai democratici. "Quando dice "chi
    non è con noi è contro noi" ' mi ricorda i nazisti: rimuoverlo dal potere sarà il
    centro della mia attività nei prossimi mesi. La gara per la presidenza del 2004 è una
    questione di vita o di morte". Insomma,- non resta che aspettare i prossimi passi, e
    le prossime esternazioni. Di sicuro, Soros dirà qualcosa di sinistra. 
    Sempre George Soros è tra i finanziatori del movimento Move On nato al tempo di Clinton,
    quando la Casa Bianca era nel vortice dello scandalo Lewinsky. Boyd e Blades erano delusi
    da Clinton e indignati per la strumentalizzazione del caso mandarono una e-mail a 50 amici
    per suggerire una petizione al congresso: "Censor Clinton and move on"
    (censurate Clinton e andate avanti ad occuparvi di cose più importanti). L'idea piacque
    ai destinatari e ognuno girò l'email ai suoi conoscenti. Tre settimane dopo era successo
    il miracolo. La petizione aveva 250.000 firme, e donazioni spontanee sufficienti a
    comprare una pagina di pubblicità sul New York Times. Da una lista di indirizzi e-mail
    era nato un movimento. Un anno dopo la sigla riemerse in un'America prostrata dal
    terrorismo e nel 2002 Move on era all'avanguardia del rinato pacifismo americano. La sua
    autonomia dai mass-media "ricchi", la capacità di raggiungerei giovani hanno
    favorito il successo delle manifestazioni pacifiste. Ignorati dalle tv, dall'ottobre 2002
    fino all'attacco in Iraq quasi ogni settimana cortei di due-trecentomila persone sfilavano
    per le vie di San Francisco, Los Angeles o Washington contro la guerra. Il partito
    democratico, titubante e diviso, stava a guardare. Ma il tamtam di Internet arrivava in
    zone della società a cui la politica non parla da anni. A giugno MoveOn ha usato la sua
    potenza organizzando per la prima volta delle "primarie online" per scegliere
    l'avversario di Bush. Nessun candidato democratico ha osato snobbare l'appuntamento, tutti
    hanno dovuto accettare di andare sul sito www.moveon.org
      per rispondere alle email dei simpatizzanti. Con 320.000 voti in 48 ore, il 26 e 27
    giugno, l'affluenza ha superato quella delle primarie "fisiche" del New
    Hampshire, il tradizionale avvio della corsa alla nomination. Ed è lì che  Howard
    Dean ha cominciato a decollare. L'outsider a cui nessuno dava una chance è stato
    plebiscitato dal voto online. Da quel momento MoveOn lo ha appoggiato e la campagna di
    dean ha subito una metamorfosi: ai tradizionali comizi si sono affiancati gli incontri
    spontanei organizzati in tutte le città d'America attraverso il passaparola del sito Meet
    Up. 
    Internet si è rivelato una formidabile macchina di raccolta di fondi. MoveOn sta per
    raggiungere i 10 milioni di dollari a furia di mini-donazioni da venti dollari l'una. Dean
    distanzia i rivali, è oltre i 25 milioni di dollari. Il popolo anti-Bush ha capito che la
    destra va battuta anche sul terreno delle risorse economiche. Ogni volta che MoveOn lancia
    una nuova campagna - di recente la richiesta delle dimissioni di Rumsfeld - in poche ore
    affluiscono versamenti sufficienti a comprare una pagina deL New York Times (40.000
    dollari) o uno spot televisivo (300.000 dollari). Ora l'associazione ha indetto sul suo
    sito un concorso di creatività, per selezionare tra giovani registi la più efficace
    pubblicità televisiva di 30 secondi contro la politica di Bush: nella giuria siede tra
    gli altri Michael Moore. La fantasia al potere è uno degli ingredienti di questo
    fenomeno: ha avuto successo istantaneo l'iniziativa di una e-mail quotidiana sulle bugie
    di Bush. 
    MoveOn ha dei valori ma non ha un'ideologia, non ha un gruppo dirigente nel senso
    tradizionale, tantomeno un'organizzazione di funzionari (oltre ai fondatori c'è solo un
    direttore stipendiato a tempo pieno). La sua forza è nell'interattività. Come
    selezionate i tempi su cui dare battaglia, ho chiesto a Joan Blades? "Fanno tutto gli
    iscritti, dalle lettere che mandano al nostro sito capiamo subito qual è il tema del
    momento, su cui sono pronti a mobilitarsi". Un recente documentario girato da
    volontari di MoveOn - "Tutta la verità sulla guerra in Iraq" - è l'occasione
    per organizzare degli house-parties, feste casalinghe in cui i simpatizzanti di MoveOn
    possono conoscersi di persona. Come un monitor del Pentagono, il sito del movimento
    esibisce una mappa degli Stati Uniti con tanti puntini luminosi per, ogni luogo dove si
    tiene un party: in queste ore la mappa splende come un albero di Natale. 
     
    E così Soros con Chomsky e tanti altri intellettuali liberal hanno capito che la politica
    aggressiva e prepotente di Bush e dell'America conservatrice non giova di certo al mondo
    nè agli stessi Stati Uniti, e questi pensatori ne sono così fermamente convinti tanto da
    dichiarare "Se Bush venisse rieletto nel novembre del 2004 sarebbe la più immane
    sciagura per il mondo e per questo paese." Soros ha infine dunque dichiarato:
    "Dedicherò tutte le mie risorse al finanziamento e al sostegno della campagna
    democratica. E' una sfida che vale la vita", e inoltre ha aggiunto, "Bush si è
    impadronito e ha successivamente tradito la memoria dell'11 settembre, scatenando la più
    irragionevole e controproducente delle rappresaglie". 
     
    Alcuni brani del testo sono presi dagli articoli di Eugenio Occorsio e Federico Rampini
    apparsi su reppublica il 17 novembre 2003 e il 10 dicembre 2003. il resto è opera di Carl
    William Brown 
     
    LA
    GLOBALIZZAZIONE, IL CAPITALISMO, I MERCATI, IL NON-PROFIT. 
     
    L'obiettivo di questo libro non è solo quello di far luce sul
    funzionamento del capitalismo globale, ma anche di suggerire metodi per poterlo
    migliorare: a questo scopo ho adottato una definizione abbastanza ristretta di
    globalizzazione, identificandola con i liberi movimenti di capitale e con il crescente
    dominio dei mercati finanziari globali e delle imprese multinazionali sulle economie
    nazionali. Questo approccio ha il vantaggio di restringere l'ambito di discussione. Sono
    convinto che la globalizzazione è stata asimmetrica: lo sviluppo delle nostre istituzioni
    internazionali non ha tenuto il passo con lo sviluppo dei mercati finanziari, e le nostre
    risoluzioni politiche sono rimaste indietro rispetto alla globalizzazione dell'economia. A
    partire da queste premesse ho formulato una serie di proposte concrete, che renderebbero
    il capitalismo globale piu stabile ed equo. 
    Sono stato stimolato all'impresa da quella
    che ho visto come un'involontaria alleanza tra i fondamentalisti del mercato di estrema
    destra e gli attivisti antiglobalizzazione di estrema sinistra. Sono ben strani compagni
    di letto, eppure sono piu che decisi a ribaltare o distruggere le istituzioni
    internazionali esistenti. Il mio obiettivo, nello scrivere questo libro, e di aggregare
    una nuova coalizione con la missione di riformare e rafforzare le istituzioni
    internazionali, e di crearne di nuove dedicate ai temi che alimentano l'attuale
    malcontento. Certo, le istituzioni finanziarie e commerciali esistenti (IFTI) hanno dei
    difetti: tutte le istituzioni ne hanno. Questo è un motivo per migliorarle, non per
    distruggerle. 
    Ritengo di avere delle qualifiche fuori dal
    comune per questo progetto. Ho lavorato con successo nel mercato finanziario globale, e
    questo mi ha consentito una visione dall'interno del suo funzionamento. Inoltre, sono
    attivamente impegnato nel tentativo di rendere il mondo un posto migliore, e a questo
    scopo ho istituito una rete di fondazioni dedite al concetto di società aperta. Ritengo
    che il sistema capitalistico globale nella sua forma attuale sia una deformazione di ciò
    che dovrebbe essere una società globale aperta. Io sono solo uno dei tanti esperti dei
    mercati finanziari, ma la mia preoccupazione per il futuro dell'umanità mi differenzia da
    molti miei colleghi. Ho passato la maggior parte degli ultimi cinque anni a studiare i
    difetti della globalizzazione, e su questo ho scritto libri e articoli. Il mio ultimo
    libro, La società aperta, era tuttavia piuttosto carente dal punto di vista delle
    proposte di soluzioni concrete. Il presente lavoro intende in parte ovviare a quella
    mancanza. 
    Mi sento dire spesso che esiste una
    contraddizione tra il trarre profitto dal mercato finanziario globale e il cercare di
    riformarlo. Io non la vedo. Il mio interesse primario e migliorare il sistema che mi ha
    portato al successo, in modo che duri più a lungo; questo interesse precede il mio
    impegno nei mercati finanziari. In quanto ebreo nato in Ungheria nel 1930, ho vissuto sia
    l'occupazione nazista che quella sovietica. Ho imparato molto presto quanto sia
    importante, per la sopravvivenza e il benessere, il tipo di sistema politico che si
    afferma. Da studente alla London School of Economics sono stato molto influenzato dalla
    filosofia di Karl Popper, autore di Open Society and Its Enemies. Appena raggiunto il
    successo come gestore di hedge fund, istituii una fondazione, la Open Society Fund (ora
    Open Society Institute), per "aprire le società chiuse, contribuire a rendere più
    vitali le società aperte e incoraggiare una mentalità critica ". Questo accadeva
    nel 1979. All'inizio, la fondazione si concentrò sull'apertura delle società chiuse;
    poi, dopo il collasso dell'impero sovietico, si impegnò per favorite la transizione dalle
    società chiuse a quelle aperte; più di recente, essa si è concentrata sui mali del
    capitalismo globale Questo libro è la naturale conseguenza di quell'impegno. 
    Nel tentativo di costruire una coalizione
    per la riforma e il rafforzamento delle nostre IFTI ho incontrato una difficoltà: è
    sempre più facile mobilitare il pubblico contro qualcosa che a favore di qualcosa. Un
    programma costruttivo deve essere sufficientemente generico da incontrare le aspettative
    della gente e tuttavia abbastanza specifico da consentire la creazione di una coalizione
    attorno a esso. Un tale programma non può essere sviluppato da un solo individuo.
    Pertanto, ho fatto circolare il mio libro in bozza in un vasto gruppo di persone e ho
    chiesto la loro opinione. Ho ricevuto molti commenti e obiezioni valide, e nel prodotto
    finito ho incluso i consigli che ho ritenuto fondati. Credo che il libro, nella sua
    versione definitiva, proponga un programma costruttivo the potrebbe essere sostenuto
    dall'opinione pubblica e messo in pratica dai governi mondiali. Fulcro del libro e la
    proposta di usare i Diritti speciali di prelievo (DSP) per la fornitura di beni pubblici
    su scala globale. II piano non curerà tutti i mali della globalizzazione - nulla potrà
    farlo - ma contribuirebbe a rendere il mondo un posto migliore. 
    Ero gia molto avanti nell'opera di revisione
    del testo finale quando i terroristi sferrarono il loro attacco, L'll settembre 2001.
    Quell'evento creò una situazione totalmente nuova. Sentii che il libro, così com'era,
    non andava abbastanza lontano. Si limitava a una serie di proposte che consideravo
    praticabili prima dell'11 settembre, ma non esponeva la visione di una società globale
    aperta che aveva motivato l'intero lavoro. II momento attuale, invece, è propizio a che
    quel concetto riceva vasta udienza. La guerra al terrorismo non basta; c'è anche bisogno
    della visione positiva di un mondo migliore. 
    L'11 settembre ha sconvolto il popolo degli Stati Uniti, che si e reso conto del fatto che
    gli altri forse considerano gli USA in modo assai diverso da come gli USA stessi si
    percepiscono. Gli americani sono preparati a rivedere la loro valutazione del mondo e del
    ruolo degli USA in esso, oggi più che in tempi normali. Questo fornisce un'opportunità
    unica per ripensare e rimodellare il mondo in misura più profonda di quanto sia mai stato
    possibile prima dell'll settembre. 
    Perciò ho deciso di aggiungere al libro una
    conclusione che definisca la mia visione di una società aperta globale. Essa è molto
    diversa nello stile dal resto del libro. Si tratta più di un pezzo polemico che di un
    rapporto ponderato sulle deficienze del capitalismo; e una visione astratta, più che un
    insieme di proposte concrete. Ho intenzione di elaborarla a tempo debito. Soprattutto, la
    conclusione necessita ancora di quel processo di revisione critica a cui il resto del
    libro e già stato sottoposto; e ne ha bisogno ancora di più in quanto tratta di
    argomenti che conosco molto meno del sistema finanziario globale. 
    Ero piuttosto indeciso sull'opportunità di aggiungere la conclusione, poiché il mio
    obiettivo era di creare un vasto consenso, e la conclusione poteva metterlo in forse. La
    proposta dei Diritti speciali di prelievo, in particolare, richiederà il sostegno degli
    Stati Uniti per essere messa in pratica; tuttavia, le mie considerazioni sono altamente
    critiche nei confronti dell'approccio unilaterale ed egemonico del governo Bush ai
    problemi intemazionali. Alla fine ho deciso di fidarmi di quel pubblico che vorrei
    mobilitare. Non è necessario che la gente condivida tutte le mie opinioni per sostenere
    la proposta dei Diritti speciali di prelievo, e se l'opinione pubblica la sostiene, un
    governo democratico deve rispettare la volontà del popolo, anche se non gradisce le mie
    critiche. 
     
    Introduzione  Le carenze del capitalismo
    globale 
     
    Globalizzazione è un termine abusato, al quale si possono attribuire vari significati.
    Per gli scopi di questa trattazione, la intenderò come lo sviluppo dei mercati finanziari
    globali, la crescita delle imprese transnazionali e il loro crescente dominio sulle
    economie nazionali. Ritengo che la maggior parte dei problemi che la gente associa alla
    globalizzazione, compresa la penetrazione dei valori del mercato in aree tradizionalmente
    estranee a esso, può essere attribuita a questi fenomeni. Si potrebbe anche discutere
    della globalizzazione dell'informazione e della cultura; la diffusione della televisione,
    Internet e le altre forme di comunicazione, la grande mobilità delle idee e la loro
    commercializzazione, ma temo che questo ci porterebbe troppo lontano. Restringendo la
    discussione, spero di riuscire a mantenerla entro limiti gestibili e di arrivare a
    formulare alcune proposte concrete di miglioramenti istituzionali. 
     
    La globalizzazione, nel senso in cui l'abbiamo definita, è un fenomeno relativamente
    recente che differenzia la situazione attuale da quella di cinquanta o anche venticinque
    anni fa. 
    Alla fine della seconda guerra mondiale la maggior parte delle nazioni controllava
    rigorosamente le transazioni finanziarie internazionali. Le istituzioni di Bretton Woods,
    Fondo monetario internazionale (FMI) e Banca Mondiale, furono concepite per facilitare il
    commercio e gli investimenti internazionali in un ambiente caratterizzato da ristretti
    flussi di capitale privato. Gradualmente, i controlli sui movimenti di capitale furono
    eliminati, e i mercati finanziari offshore si espansero rapidamente sotto la spinta della
    crisi petrolifera del 1973. I movimenti internazionali di capitale accelerarono nei primi
    anni '80, sotto i governi di Ronald Reagan e Margaret Thatcher, e i mercati finanziari
    divennero davvero globali nei primi anni '90, dopo il collasso dell'impero sovietico. 
     
    Questo non è il primo periodo storico in cui i mercati finanziari internazionali
    rivestono un ruolo dominante; condizioni simili vigevano anche nel periodo precedente la
    prima guerra mondiale. I movimenti internazionali di capitale furono interrotti dalla
    Grande Guerra e poi dalla grande depressione degli anni '30. Chiaramente, il processo non
    è irreversibile. 
     
    La caratteristica saliente della globalizzazione è che permette il libero movimento del
    capitale finanziario; al contrario, la circolazione delle persone resta pesantemente
    disciplinata. Dal momento che il capitale è un ingrediente fondamentale della produzione,
    le singole nazioni devono competere per attirarlo, e questo inibisce la loro capacità di
    tassarlo e regolamentarlo. Sotto l'influsso della globalizzazione, il carattere delle
    nostre politiche economiche e sociali ha subito una radicale trasformazione. La
    possibilità del capitale di andare ovunque mina la capacità dei governi di esercitare un
    controllo sull'economia. La globalizzazione dei mercati finanziari ha reso obsoleto lo
    stato sociale nato dopo la seconda guerra mondiale, poiché le persone che necessitano di
    una rete di sicurezza sociale non possono lasciare il paese, mentre il capitale che lo
    stato sociale tassava può? 
     
    Questo risultato non è casuale. L'obiettivo dell'amministrazione Reagan negli Stati Uniti
    e del governo Thatcher nel Regno Unito era proprio quello di ridurre la capacità dello
    stato di interferire nell'economia, e la globalizzazione ha assecondato questo scopo. 
     
    La trasformazione in corso dagli anni '80 non è stata ancora ben compresa. Non è neppure
    riconosciuta da tutti. Il capitale ha sempre desiderato ardentemente di evitare tasse e
    regolamentazioni, quindi è facile interpretare l'attuale tendenza alla loro riduzione
    come manifestazione di leggi economiche universalmente valide. Infatti questa è la
    visione dominante in tutto il mondo anglosassone. Io la definisco fondamentalismo del
    mercato. Quest'ultimo sostiene che la migliore allocazione delle risorse è quella
    realizzata dai meccanismi di mercato lasciati a se stessi, e che qualsiasi interferenza
    riduce l'efficienza dell'economia. Secondo questi criteri, la globalizzazione è stata un
    totale successo. 
     
    In effetti la globalizzazione è uno sviluppo per molti versi auspicabile. L'impresa
    privata riesce a creare ricchezza molto meglio di quanto non faccia lo stato. Inoltre, gli
    stati tendono ad abusare del proprio potere; la globalizzazione offre un certo  
    grado di libertà individuale che nessun singolo stato può assicurare. La libera
    concorrenza su scala globale ha scatenato l'inventiva e il talento imprenditoriale, e ha
    accelerato le innovazioni tecnologiche. 
     
    Ma la globalizzazione ha anche un lato negativo. In primo luogo, molte persone (in
    particolare nei paesi meno sviluppati) sono state danneggiate dalla globalizzazione senza
    avere una rete di sicurezza sociale che le proteggesse; molte altre sono state emarginate
    dai mercati globali. In secondo luogo, la globalizzazione ha provocato una ripartizione
    iniqua delle risorse tra beni privati e beni pubblici. I mercati vanno bene per creare
    ricchezza, ma non sono concepiti per provvedere ad altri bisogni sociali. Il perseguimento
    del profitto, indifferente a ogni altra considerazione, può nuocere all'ambiente ed
    entrare in conflitto con altri valori sociali. Terzo, i mercati finanziari globali hanno
    una naturale tendenza alla crisi. Chi vive nei paesi sviluppati può non rendersi
    completamente 
    conto della devastazione prodotta dalle crisi finanziarie poiché, per motivi che saranno
    spiegati in seguito, esse tendono a colpire assai più duramente le economie in via di
    sviluppo. Tutti e tre questi fattori si sommano, e ne risulta un "terreno di
    gioco" estremamente ineguale. 
     
    I fondamentalisti del mercato riconoscono i benefici del mercato finanziario globale ma
    ignorano i suoi difetti. Sostengono che i mercati finanziari tendono all'equilibrio e
    realizzano l'allocazione ottimale delle risorse. Anche se il mercato non è perfetto,
    ritengono che sia meglio lasciare ad esso l'allocazione delle risorse, piuttosto che
    interferire attraverso regolamenti nazionali e internazionali. 
    È pericoloso, tuttavia, riporre eccessiva fiducia nel meccanismo del mercato. I mercati
    sono concepiti per facilitare il libero scambio delle merci e dei servizi tra chi lo
    desidera, ma non sono in grado, da soli, di provvedere a necessità collettive quali la
    legalità, la sicurezza o il mantenimento del meccanismo stesso del mercato. Né tantomeno
    sono in grado di assicurare la giustizia sociale. Questi sono "beni pubblici"
    che possono scaturire solo da un procedimento politico (political process). 
     
    In generale, i procedimenti politici sono meno efficienti del meccanismo di mercato, ma
    non possiamo farne a meno. Il mercato è amorale: permette di agire secondo il proprio
    interesse e impone qualche regola sul modo in cui tale interesse viene espresso, ma non
    esprime un giudizio morale sull'interesse medesimo. E questa è una delle ragioni per cui
    è tanto efficiente. È difficile stabilire cosa sia giusto e cosa no; trascurando questo
    aspetto, il mercato permette di perseguire il proprio interesse senza freni o inibizioni. 
     
    Ma la società non può funzionare senza qualche distinzione tra giusto e sbagliato.
    Prendere decisioni collettive su cosa vada permesso e cosa vietato è compito della
    politica - ma questa risente delle difficoltà nel giungere a decisioni collettive in un
    mondo che manca di un forte codice morale. Anche la creazione e il mantenimento di un
    meccanismo di mercato richiede un'azione politica. Questo punto è ben chiaro ai
    fondamentalisti del mercato. Ciò che capiscono meno è che la globalizzazione dei mercati
    senza un parallelo rafforzamento delle strutture politiche e sociali internazionali ha
    portato a uno sviluppo sociale molto asimmetrico. 
     
    Malgrado le sue pecche, io sono un convinto fautore della globalizzazione. La sostengo non
    solo per via della ricchezza supplementare che produce, ma ancora di più per la libertà
    che può offrire. Quella che io chiamo società aperta globale saprebbe garantire un grado
    di libertà molto maggiore di qualsiasi singolo stato. A mio giudizio la situazione
    attuale, in cui il capitale è libero di muoversi ma i temi sociali vengono tenuti in poco
    conto, non è altro che una forma distorta di società aperta globale. Scopo di questo
    libro è individuare le distorsioni e proporre alcune azioni specifiche per correggerle. 
    Sono necessarie riforme istituzionali: 
    1. per contenere l'instabilità dei mercati finanziari; 
    2. per correggere quel preconcetto (bias) insito nelle attuali istituzioni finanziarie e
    commerciali internazionali (IFTI), che favorisce i paesi sviluppati che le controllano; 
    3. per fare da complemento all'Organizzazione mondiale del commercio (OMC), che facilita
    la produzione di ricchezza, con la creazione di istituzioni internazionali di pari potere
    votate ad altri obiettivi sociali, quali la riduzione della povertà e la fornitura di
    beni pubblici su scala globale; e infine  
    4. per migliorare la qualità della vita pubblica nei paesi afflitti da governi corrotti,
    repressivi o incompetenti. 
     
    Occorre anche occuparsi della penetrazione dei valori del mercato in quelle aree che non
    spetta al mercato governare; ma questo non è possibile con le sole riforme istituzionali,
    occorre dare un nuovo orientamento ai nostri valori. Per esempio, professioni quali la
    medicina, la giurisprudenza e il giornalismo sono diventate business. Prendo atto del
    problema, ma in questo libro mi concentrerò sulle riforme istituzionali. 
     
    Non vi è largo accordo sulla necessità delle riforme che peroro. I fondamentalisti del
    mercato probabilmente si opporranno ai primi tre punti, e gli attivisti
    antiglobalizzazione sono stranamente ciechi sul quarto. I cattivi governi sono una delle
    principali cause di povertà e miseria nel mondo (la cattiva posizione geografica è
    l'altra grande causa, ma per quello è parecchio più difficile fare qualcosa). Eppure gli
    attivisti antiglobalizzazione non hanno dato un peso adeguato ai danni prodotti dai
    cattivi governi. 
    La globalizzazione non è un gioco a somma zero. I benefici superano i costi, nel senso
    che l'aumentata ricchezza prodotta dalla globalizzazione potrebbe essere utilizzata per
    rimediare alle sue iniquità e agli altri suoi difetti, e ne resterebbe ancora d'avanzo.
    L'affermazione è difficile da dimostrare, perché costi e benefici non possono essere
    ridotti a un comune denominatore: il PIL non è una misura adeguata del benessere umano.
    Ciò nondimeno, tutte le prove indicano che i vincitori potrebbero indennizzare gli
    sconfitti e uscirne comunque con un guadagno. Il problema è che i vincitori non
    indennizzano affatto gli sconfitti. Non c'è un equivalente del processo politico che
    avviene all'interno degli stati. Mentre i mercati sono diventati globali, la politica
    resta saldamente radicata nella sovranità dello stato. 
     
    Alla correzione dei guasti della globalizzazione viene devoluta una quantità troppo
    esigua di risorse. II risultato è che la forbice tra ricchi e poveri continua ad
    allargarsi. L'uno per cento più ricco della popolazione riceve quanto il 57 per cento
    più povero. Più di un miliardo di persone vive con meno di un dollaro al giorno; quasi
    un miliardo non ha accesso all'acqua potabile; 826 milioni sono malnutriti; 10 milioni
    muoiono ogni anno per mancanza di cure sanitarie di base. Questa situazione non è stata
    necessariamente frutto della globalizzazione, ma di certo la globalizzazione ha fatto ben
    poco per porvi rimedio. 
     
    Le iniquità della globalizzazione hanno suscitato risentimento e proteste molto estese.
    Gli attivisti antiglobalizzazione cercano di sovvertire o di distruggere le istituzioni
    che appoggiano il commercio internazionale e i mercati finanziari globali. Tali
    istituzioni, tuttavia, sono minacciate anche dal versante opposto. I fondamentalisti del
    mercato si oppongono a qualsiasi genere di interferenza con il meccanismo di mercato; a
    dire il  
    vero, la loro ostilità nei confronti degli organismi internazionali è perfino più
    grande della loro avversione per i regolamenti statali. La coalizione inconsapevole tra
    estrema sinistra ed estrema destra è riuscita a indebolire le poche istituzioni
    internazionali di cui disponiamo. Il movimento antiglobalizzazione attacca le IFTI e in
    particolare l'OMC, mentre il Congresso degli Stati Uniti ostacola in primo luogo le
    Nazioni Unite e solo secondariamente le IFTI. 
     
    È un peccato. Quello che ci serve sono istituzioni internazionali più forti, non più
    deboli. Dobbiamo formare una coalizione diversa, il cui obiettivo sia la riforma e il
    rafforzamento delle convenzioni internazionali, non la loro distruzione. Lo scopo di
    questo libro è proporre un'agenda attorno alla quale si possa aggregare una coalizione
    del genere. 
     
    Le istituzioni che sorreggono il commercio internazionale e i mercati finanziari globali
    sono relativamente forti. Occorre riformarle in qualche misura, poiché ora vengono
    amministrate nell'interesse dei paesi ricchi che le controllano, e spesso a detrimento dei
    paesi poveri che sono al margine del sistema. Ma sono più efficienti e meglio finanziate
    delle istituzioni dedite ad altre finalità, quali la salvaguardia della pace, lo sviluppo
    sociale e politico, il miglioramento della salute pubblica e delle condizioni di lavoro, e
    la difesa dei diritti umani. 
     
    L'ONU, che è la più importante istituzione internazionale al di fuori delle IFTI,
    proclama le sue nobili intenzioni ma non possiede né i mezzi né il potere per tradurle
    in pratica. I suoi obiettivi sono esposti nel Preambolo dell'Atto Costitutivo, espresso
    nei termini di "Noi, il Popolo". Ma l'Atto stesso è basato sulla sovranità
    degli stati membri, e gli interessi di uno stato sovrano non coincidono necessariamente
    con quelli delle persone che ci vivono. Molti stati non sono democratici, e molti abitanti
    non sono nemmeno cittadini. Risultato: le Nazioni Unite non hanno la possibilità di
    compiere la missione enunciata nel Preambolo. L'ONU è un'istituzione preziosa, e può
    essere resa ancora più utile; se la giudichiamo da quel Preambolo, tuttavia, è destinata
    a deludere. Quando ci affidiamo all'ONU non dobbiamo mai dimenticare che si tratta di
    un'associazione di stati. Come osservava Richelieu nel XVII secolo e come Henry Kissinger
    ha rimarcato di recente, gli stati  
    hanno interessi ma non principi. Di conseguenza, gli stati membri tendono a mettere i loro
    interessi nazionali davanti all'interesse comune, intralciando gravemente il funzionamento
    dell'ONU. 
     
    L'organo più potente dell'ONU è il Consiglio di Sicurezza, poiché esso può avere il
    sopravvento sulla sovranità degli stati membri. Solo i cinque membri permanenti del
    Consiglio di Sicurezza hanno diritto di veto; quando sono d'accordo, possono imporre la
    loro volontà al resto del mondo, anche se questo non si verifica molto spesso. In
    effetti, l'ONU riunisce due istituzioni in una: il Consiglio di Sicurezza, che ha la
    precedenza sulla sovranità degli stati, e il resto, che vi è subordinato. Il bisogno del
    consenso unanime rende il resto inefficace e inefficiente: l'Assemblea Generale è un
    salotto, e le diverse agenzie sono impastoiate dalla necessità di assecondare le
    richieste degli stati membri. Esse servono anche da bacino di raccolta per diplomatici in
    esubero e politici in ritiro. 
     
    Dopo il collasso del comunismo c'è stato un fugace momento in cui il Consiglio di
    Sicurezza avrebbe potuto operare nel modo originariamente previsto, ma le potenze
    occidentali non  
    hanno colto l'occasione. Durante la crisi bosniaca non sono riuscite a mettersi d'accordo,
    e durante quella del Ruanda non sono riuscite ad agire di concerto. Negli ultimi anni gli
    Stati Uniti non hanno pagato le proprie quote e hanno scavalcato o sminuito l'ONU in vari
    modi. Anche dopo l'11 settembre, gli USA hanno cercato di agire il più possibile al di
    fuori delle Nazioni Unite. 
     
    La disparità tra le IFTI e le istituzioni politiche internazionali ha reso lo sviluppo
    della società globale estremamente disomogeneo. Il commercio internazionale e il mercato
    finanziario globale riescono a generare ricchezza, ma non possono curarsi degli altri
    bisogni sociali, come la salvaguardia della pace, l'attenuazione della povertà, la tutela
    dell'ambiente, delle condizioni di lavoro e dei diritti umani - quelli che in genere si  
    chiamano "beni pubblici". Lo sviluppo economico, vale a dire la produzione di
    beni privati, ha acquisito la precedenza sullo sviluppo sociale, vale a dire sulla
    fornitura dei beni pubblici. Questa distorsione può essere corretta solo migliorando i
    dispositivi per la fornitura dei beni comuni. In questo contesto è importante ricordare
    che il commercio internazionale, il buon funzionamento dei mercati e in generale la
    creazione di ricchezza sono anch'essi beni comuni. Purtroppo il movimento no-global è
    fuori strada quando cerca di distruggere le istituzioni che garantiscono questi beni
    comuni. "Affondare" o limitare l'OMC sarebbe controproducente: vorrebbe dire
    uccidere la gallina dalle uova d'oro. Invece di manifestare contro l'OMC, i no-global
    dovrebbero lottare a favore di istituzioni altrettanto efficienti che provvedano a quegli
    obiettivi sociali che essi hanno a cuore. 
     
    L'OMC ha deciso di avviare un nuovo ciclo di negoziati, il Development Round. Questo
    dovrebbe essere affiancato da un analogo negoziato rivolto alla fornitura di altri beni
    comuni. Le necessità sono note. Il Millennium Summit delle Nazioni Unite, tenutosi nel
    settembre 2000, ha formulato una serie di propositi ambiziosi ma realizzabili per la
    riduzione della povertà, il controllo delle malattie, il rafforzamento sanitario e la
    scolarizzazione primaria entro l'anno 2015. L'ONU terrà una conferenza internazionale
    sulla Finanza per lo Sviluppo a Monterrey, in Messico, nel marzo 2002. L'appuntamento
    dovrebbe concentrarsi proprio sulla diffusione dei beni pubblici su scala globale. Senza
    di essa, lo sviluppo è destinato a restare asimmetrico. 
     
    Il compito dell'OMC è facilitare gli scambi internazionali di beni e servizi. Ha svolto
    questo compito stabilendo regole vincolanti e un meccanismo efficiente per farle
    rispettare. Ci sono due ottime ragioni per cui non è possibile applicare lo stesso
    approccio ai beni pubblici. Una è che molti paesi semplicemente non hanno le risorse
    sufficienti a raggiungere gli standard internazionali. L'altra è che sarebbe difficile
    applicare un  
    meccanismo esecutivo simile a quello che funziona così bene nel commercio, che consiste
    nel concedere o ritirare l'accesso al mercato. Semmai, devono esserci incentivi finanziari
    per incoraggiare l'adesione volontaria alle regole internazionali e alle prassi ottimali
    (best practices). Il blocco degli incentivi potrebbe anche diventare una forma di
    sanzione, e sarebbe molto utile in un mondo dove la sovranità degli stati ostacola il
    processo di imposizione delle regole ai singoli paesi. 
     
    Una delle affermazioni principali di questo libro è che il sistema basato su norme, usato
    dall'OMC per lo scambio di beni privati, dovrebbe essere integrato da un sistema basato su
    incentivi per la distribuzione di beni pubblici. 
     
    La globalizzazione non può essere ritenuta responsabile di ogni male. Le principali cause
    dell'afflizione e dell'indigenza sono di gran lunga i conflitti armati, i regimi corrotti
    e oppressivi, e gli stati deboli; e non si può certo incolpare la globalizzazione, se
    esistono cattivi governi. Semmai la globalizzazione ha costretto i singoli paesi a
    migliorare la propria efficienza o almeno a ridurre il ruolo del governo nell'economia. 
     
    Tuttavia la globalizzazione ha reso il mondo più interdipendente e ha accresciuto
    l'entità dei danni che i problemi interni alle singole nazioni possono causare. Perciò
    non è sufficiente elaborare piani migliori per la diffusione dei beni pubblici su scala
    globale; dobbiamo anche trovare il modo di migliorare le condizioni politiche e sociali
    all'interno dei singoli paesi. Questo è il secondo punto su cui questo libro si
    concentrerà. 
     
    Gli attacchi terroristici dell'11 settembre ci hanno fatto toccare con mano, in modo
    tragico, quanto il mondo sia diventato interdipendente e quanto sia importante per la
    nostra sicurezza la situazione interna ad altri paesi. Bin Laden non avrebbe potuto
    scagliare il suo attacco contro gli Stati Uniti senza godere di un asilo sicuro in
    Afghanistan. Ma questo era vero anche prima dell'11 settembre. A partire dalla fine della
    guerra fredda, la maggior parte delle crisi sfociate in spargimenti di sangue sono state
    provocate da conflitti interni piuttosto che da conflitti tra stati. Durante la guerra
    fredda i conflitti interni sono stati sfruttati ma anche contenuti dalle due superpotenze.
    Quando sono venute a mancare le restrizioni imposte da USA e URSS, è stato necessario che
    i conflitti degenerassero in bagni di sangue perché si arrivasse a un intervento esterno. 
     
    Questo è accaduto perché gli interventi si sono perlopiù limitati ad azioni punitive.
    Gli incentivi positivi sono stati scarsi. Dopo la fine della seconda guerra mondiale gli
    Stati Uniti inaugurarono il Piano Marshall, con benefici duraturi per l'Europa. Non ci
    sono state iniziative simili dopo il crollo dell'Unione Sovietica. Gli aiuti all'estero
    ammontano appena allo 0,1 per cento del PIL degli Stati Uniti, a fronte del 3 per cento
    all'inizio del Piano Marshall. L'andamento nel tempo degli aiuti all'estero espressi in
    percentuale rispetto al PIL non è certo incoraggiante. 
     
    Un'azione preventiva basata su incentivi positivi è di gran lunga preferibile a un
    intervento dopo che la crisi è già in atto. E' meno costosa in termini monetari e di
    sofferenze umane. L'esperienza insegna che la prevenzione di una crisi non comincia mai
    troppo presto. Un intervento precoce magari non finirà sulle prime pagine: "non si
    riferisce mai una crisi evitata". Ma quando la tensione ha già portato a uno
    spargimento di sangue, diventa sempre più difficile prevenire altri scontri. Anche un
    paese come gli Stati Uniti, in cui vige il primato della legge (rule of law), è soggetto
    a pressioni favorevoli alla vendetta. Agli esordi, tuttavia, è difficile prevedere quali
    vertenze sfoceranno in conflitti letali. Questo è un forte argomento per promuovere ciò
    che io chiamo società aperta, in cui le rimostranze si possono esprimere pubblicamente,
    ed esistono istituzioni preposte a risolvere i problemi da cui sorgono. Anche in questo
    modello di società possono emergere conflitti, ma è meno probabile che degenerino in
    spargimenti di sangue. Il miglioramento della qualità dei governi e la creazione di
    società aperte in tutto il mondo è di interesse vitale per la sicurezza degli Stati
    Uniti e delle altre democrazie. Ciò  
    non potrà sostituire la potenza militare, ma diminuirà le probabilità che vi si debba
    ricorrere. 
     
    La democrazia e la società aperta non possono essere imposte dal di fuori, poiché i
    principi della sovranità si oppongono alle interferenze esterne. L'unico modo di
    promuoverle è rafforzare la società civile e offrire incentivi ai governi perché
    attuino riforme economiche e politiche. 
     
    I due assunti su cui si basa questo libro hanno un denominatore comune: tanto la
    diffusione dei beni pubblici quanto il miglioramento delle condizioni interne richiedono
    un trasferimento di risorse dai paesi ricchi a quelli poveri. Questo contraddice i
    principi dei fondamentalisti del mercato, i quali affermano che solo il mercato, lasciato
    a se stesso, garantirà l'allocazione ottimale delle risorse. 
     
    I trasferimenti di risorse offerti dalle IFTI esistenti sono inadeguati. La maggior parte
    del denaro del Fondo monetario internazionale viene usato per rimediare a una crisi dopo
    che  
    già esplosa. L'occupazione principale della Banca Mondiale è il prestito; la sua
    capacità di concedere sovvenzioni si limita perlopiù ai profitti generati dall'attività
    di prestito. L'OMC non si cura affatto del trasferimento delle risorse. Le IFTI potrebbero
    assumere un ruolo molto più attivo di quello attuale (ne discuterò nei capitoli 1, 3 e
    4) ma c'è bisogno di una nuova forma di trasferimento internazionale di risorse che operi
    su linee diverse da quelle delle IFTI esistenti. È la componente che manca all'attuale
    quadro istituzionale. È anche il fulcro di questo libro, e verrà ampiamente sviluppato
    nel capitolo 2. 
     
    Sarà molto difficile indurre i paesi ricchi a impegnarsi in questo trasferimento di
    risorse su base istituzionale. Sono più di trent'anni che la Commissione Pearson, con
    l'avallo delle Nazioni Unite, ha fissato per i paesi donatori l'obiettivo dello 0,7 per
    cento del PIL in assistenza ufficiale allo sviluppo (ODA)." Solo cinque paesi
    raggiungono o superano quella  
    quota; nel 2000, il contributo degli Stati Uniti è stato solo dello 0,1 per cento, e la
    somma totale degli aiuti allo sviluppo ha raggiunto appena lo 0,24 per cento del PIL dei
    paesi sviluppati. Principali colpevoli di questa insufficienza sono gli Stati Uniti. 
     
    Non è un caso che i trasferimenti internazionali di risorse restino tanto al di sotto
    dell'obiettivo dello 0,7 per cento, o che gli USA siano sul gradino più basso tra i paesi
    sviluppati. C'è una radicata convinzione, in particolare in questo paese, che gli aiuti
    allo sviluppo siano inefficaci e talvolta perfino contro producenti. La cosa peggiore è
    che questa convinzione non è priva di fondamento. 
     
    Mi sento qualificato a trattare l'argomento, perché mi sono impegnato personalmente a
    erogare aiuti di proporzioni significative (circa 245 milioni di dollari all'anno negli
    ultimi cinque anni) per la promozione di società aperte. Sono profondamente consapevole
    dell'inadeguatezza degli aiuti all'estero così come sono amministrati oggi. Sulla base
    della mia esperienza sono convinto che, con una diversa gestione, la loro efficacia e il
    loro impatto potrebbero essere enormemente migliorati. Non sono l'unico a esserne
    consapevole: negli ultimi anni sono stati compiuti seri sforzi da parte delle agenzie per
    la cooperazione - compresa la Banca Mondiale, l'Organizzazione per la Cooperazione e lo
    Sviluppo Economico (OCSE), donatori bilaterali ed esperti esterni - per valutare e
    accrescere l'efficacia degli aiuti, e sta gradualmente emergendo un nuovo paradigma,
    imperniato sull'idea di infondere nei destinatari un maggior senso della proprietà e
    della partecipazione ai programmi che dovrebbero beneficiarli, rafforzandone al contempo
    l'efficacia pratica. 
     
    A mio giudizio, il modo in cui vengono tradizionalmente assegnati gli aiuti all'estero
    presenta cinque difetti principali: 
    - Primo: gli aiuti servono gli interessi dei donatori, piuttosto che quelli dei
    destinatari. L'erogazione degli aiuti è spesso determinata da interessi di sicurezza
    nazionale basati su considerazioni geopolitiche, senza riguardo per il livello di povertà
    o per la natura del governo destinatario. Gli aiuti all'Africa durante la guerra fredda ne
    sono un esempio lampante. Dopo la caduta del muro di Berlino, la Germania occidentale,
    ansiosa di garantire la riunificazione, elargì o prestò grandi somme all'Unione
    Sovietica, badando ben poco a come venivano spese. Più tardi l'Ucraina è divenuta una
    sussidiata geopolitica dell'occidente. Dal momento che la principale causa di povertà è
    un cattivo governo, sarebbe molto meglio se i donatori prestassero più attenzione alla
    situazione politica interna ai paesi che finanziano. 
     
    - Il secondo punto, collegato al primo, è che solo di rado la proprietà dei programmi di
    sviluppo è attribuita ai destinatari; i progetti sono perlopiù elaborati e attuati da
    esterni. Quando gli esperti se ne vanno, non resta quasi nulla. I progetti importati non
    mettono radici, al contrario di quelli nati sul posto. I paesi preferiscono convogliare
    gli aiuti attraverso i propri rappresentanti, che spesso agiscono come una vera e propria
    "clientela" locale a favore degli aiuti. Perfino le istituzioni internazionali
    preferiscono inviare esperti stranieri che formare competenze interne. Gli esperti,
    naturalmente, sono responsabili verso chi li paga. Nessuno, a eccezione delle mie
    fondazioni e, più di recente, dell'UNDP (United Nations Development Programme, agenzia
    delle Nazioni Unite per lo sviluppo), è disposto a pagare esperti che rendano conto delle
    proprie azioni ai destinatari degli aiuti. Il risultato è che i destinatari non sono in
    grado di fruire degli aiuti. 
     
    - Terzo: il trasferimento degli aiuti avviene solitamente tra governi. I governi
    destinatari funzionano spesso come una dogana che smista i fondi per i propri scopi. In
    alcuni casi gli aiuti sono la principale fonte di sostegno per governi altrimenti
    impopolari. 
     
    - Quarto: i donatori insistono nel voler conservare il controllo nazionale sugli aiuti che
    concedono, causando così una mancanza di coordinamento. Quando i donatori sono in
    concorrenza per inviare aiuti, è più facile per il governo destinatario deviare le
    risorse per i suoi scopi. Questo è stato il caso della Bosnia, in cui gli aiuti
    internazionali sono andati in gran parte sprecati per sovvenzionare i vari feudi locali. 
     
    - Ultimo punto: non si ammette che la cooperazione internazionale è un'impresa ad alto
    rischio. È molto più difficile fare del bene che gestire un'impresa a scopo di lucro.
    Questo perché non esiste una sola misura del bene sociale, mentre i profitti sono un
    parametro molto chiaro. Gli aiuti, però, sono amministrati da burocrati che hanno molto
    da  
    perdere e poco da guadagnare nel correre qualche rischio. Non stupisce che i risultati
    siano così fiacchi, specie se li si giudica con gli stessi standard applicati alle altre
    attività  
    burocratiche, non tenendo conto delle difficoltà loro peculiari. È tanto più
    apprezzabile, quindi, il fatto che gli aiuti abbiano effettivamente prodotto alcuni
    effetti positivi nei paesi in transizione, per esempio facilitando il funzionamento delle
    banche centrali, dei mercati finanziari o del sistema giudiziario. Tutto ciò dimostra che
    malgrado tutti i  
    suoi difetti, gli aiuti allo sviluppo possono avere grande valore. 
     
    La mia rete di fondazioni opera con criteri diversi. La sua missione è promuovere lo
    sviluppo di società aperte. Qualunque altro merito o colpa possa avere, essa è
    schiettamente finalizzata a servire gli interessi dei destinatari. Viene gestita quanto
    più possibile da cittadini delle nazioni in cui opera. Un consiglio locale decide le
    priorità; i suoi membri collaborano con il governo quando è possibile, e
    indipendentemente da esso quando non è possibile; a volte si trovano su posizioni
    opposte. Quando le fondazioni riescono a cooperare con le autorità, l'efficacia
    dell'azione aumenta; quando non possono,  
    il loro lavoro è tanto più necessario e apprezzato, poiché rappresentano una fonte
    alternativa di finanziamento per la società civile. In generale, quanto peggiore è il
    governo, tanto migliore è la fondazione, perché gode del favore e del sostegno della
    società civile. 
     
    La società aperta viene spesso confusa con la società civile. La società civile è solo
    una delle componenti di una società aperta; un governo democratico, sensibile alle
    necessità e ai desideri dell'elettorato, e un settore privato dotato di ampia autonomia
    sono ugualmente importanti. Laddove una fondazione può collaborare con il governo, cerca
    di migliorarne la funzionalità e di renderlo più ricettivo nei confronti della società.
    I governi che accolgono questo tipo di assistenza tendono a essere sopraffatti dai
    donatori. Ma i donatori hanno la propria agenda, e il governo non possiede le capacità
    per prescindere da essi. Il miglior tipo di assistenza che le fondazioni hanno dato a
    questi governi è consistita nel potenziare quelle capacità, mettendoli in condizioni di
    assumere esperti di loro scelta (e preferibilmente connazionali). 
     
    Oltre alle fondazioni nazionali, la mia rete si compone anche di programmi (a livello
    dell'intera rete, ossia transnazionale) su tematiche specifiche quali l'istruzione, i
    media, la sanità, l'informazione, la cultura, il sistema giudiziario, lo sviluppo della
    piccola e media impresa e così via. Questi programmi operano tramite le fondazioni
    nazionali, che possono però decidere se partecipare o meno; se lo fanno, si assumono la
    responsabilità dell'attuazione del programma nel loro paese. L'interazione tra fondazioni
    nazionali e programmi crea una matrice che coniuga bisogni locali e competenze
    professionali. La matrice non è chiusa. Le fondazioni nazionali possono operare a loro
    discrezione al di fuori dei confini dei programmi della rete, e tendono a farlo nelle
    attività a sostegno della società civile e della cultura. I programmi della rete possono
    anche collaborare con istituzioni locali diverse dalle fondazioni, il che accade spesso
    nel caso delle iniziative a sostegno dei diritti umani e dell'informazione indipendente. 
     
    Sarebbe ovviamente fuori luogo applicare a un'impresa pubblica le stesse regole di una
    privata. Ciò nondimeno, l'approccio della mia rete di fondazioni potrebbe e dovrebbe
    essere preso a modello (con le necessarie modifiche) per gli aiuti internazionali di
    provenienza governativa. Nel capitolo 2 delineerò la mia proposta in merito; essa è
    basata su una emissione speciale di DSP (Diritti speciali di prelievo) stanziati dai paesi
    ricchi e specificamente destinati a un'assistenza internazionale conforme a determinate
    regole. 
     
    È improbabile che i governi adottino di propria iniziativa la proposta DSP; troppi
    interessi burocratici e politici giocano a sfavore. Ma i governi democratici rispondono ai
    loro elettorati, ed è per questo che occorre mobilitare la società civile. I tempi sono
    maturi. La variopinta coalizione di attivisti e gruppi religiosi nota come Jubilee 2000,
    ha combattuto con successo per la cancellazione del debito estero dei paesi più poveri. I
    governi del G7 e del G20 stanno cercando un modo per mitigare i problemi creati dalla
    globalizzazione. La Conferenza Internazionale dell'ONU sui Finanziamenti per lo  
    Sviluppo, nel marzo 2002, rappresenta un'altra sede di discussione adatta. Gli attacchi
    terroristici dell' 11 settembre hanno reso l'opinione pubblica degli Stati Uniti più
    consapevole della presenza del resto del mondo, più ricettiva verso idee nuove e più
    compassionevole. Se la gente lo richiede, il governo dovrà agire. 
     
    Sfortunatamente è più difficile mobilitare la gente in favore di qualcosa che contro
    qualcosa. Ma la proposta DSP, abbozzata nel secondo capitolo, è abbastanza concreta e
    ragionevole per suscitare un vasto consenso. Lo stesso non si può dire per le proposte
    contenute negli altri capitoli, riguardanti la riforma delle istituzioni finanziarie e
    commerciali esistenti. Questi sono temi più ostici, di cui devono occuparsi gli esperti;
    tuttavia la pressione popolare potrebbe concorrere a imporre alle autorità di darsi da
    fare. 
     
    Titolo originale: On Globalization Traduzione di Valentina Daniele e Laura Sgorbati
    Revisione tecnica di Massenzio Taborelli 
    © 2002 by George Soros 
    Published in the United States by Public Affairs, a member of the Perseus Book Group 
    © 2002 Ponte alle Grazie srl - Milano ISBN 88-7928-594-7  
     
    
 
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